venerdì 17 marzo 2017

The Times They Are A-Changin' - Columbia Records, 1964

Venite intorno a me voi tutti
ovunque vagate
e ammettete che le acque
intorno a voi sono salite
e accettate che presto
sarete inzuppati fino all'osso
se per voi il tempo
ha qualche valore
allora è tempo di cominciare a nuotare
o affonderete come pietre
perché i tempi stanno cambiando
venite scrittori e critici
che profetizzate con le vostre penne
e tenete gli occhi bene aperti
non vi sarà data un'altra scelta
e non parlate troppo presto
perché la ruota sta ancora girando
e nessuno può dire
chi sarà designato
il perdente di adesso
sarà domani il vincente
perché i tempi stanno cambiando
venite senatori e deputati
ascoltate vi prego il richiamo
non vi fermate sulla soglia
non bloccate l’ingresso
perché colui che ha cercato di rallentare
ci rimetterà
c'è una battaglia
fuori che infuria
e presto scuoterà le vostre finestre
e farà tremare i vostri muri
perché i tempi stanno cambiando
venite madri e padri
da tutto il paese
e non criticate
quello che non potete capire
i vostri figli e le vostre figlie
non li potete comandare
la vostra vecchia strada
sta rapidamente invecchiando
andatevene vi prego dalla nuova
se non potete anche voi dare una mano
perché i tempi stanno cambiando
la linea è tracciata
la maledizione scagliata
l'uomo lento di adesso
sarà il più veloce domani
così il presente di adesso
sarà passato domani
l'ordine sta rapidamente
scomparendo
e il primo di adesso
sarà l'ultimo domani
perché i tempi stanno cambiando

Se vi va e se vi trovate a dover parlare in aula di change management potete introdurre la vostra performance proiettando quella di Bob Dylan (connessione con Youtube permettendo) di cui vi regalo la traduzione qui sopra (e la Magnum -chi Zoolander capisce capisca). Era il ‘64...  O usate quella di Vasco (più nuova) che io personalmente amo ancora di più e uso quasi sempre, anche perché nel video -sempre su Youtube, CambiaMenti- si riporta anche il testo, davvero centrato sul fatto che la prima e unica rivoluzione che si può fare è quella su di sè.

Ma bando alla poesia più o meno Nobel e veniamo al gioco formativo.
Oggi vi passo due esercizietti-giochini di cui non mi vanto di essere autore (ma chi sono poi i primigeni autori nella formazione? Tutti copiamo e rielaboriamo ogni volta…) ma che garantisco come ottimi esempi velocissimi di resistenza al cambiamento.

 
 Il primo è il giro di braccia: chiedete ai partecipanti di incrociare le braccia come fanno di solito e poi cambiare l’incrocio.Quasi tutti  torneranno irresistibilmente alla posizione precedente, e quei pochi che ci riuscissero dichiareranno di stare scomodi. A voi il facile debriefing: se non riuscite ad accettare nemmeno questo….



 
Il secondo è un po’ più articolato ma anche più profondo e io lo uso soprattutto nei rapporti one to one.con chi non riesce ad accettare la sua realtà, ma non fa nulla per cambiarla, perché crede che non si possa.

1) Fategli prendere un foglio bianco, tracciare una riga verticale e scrivere a sinistra tutto quello che fa, nei particolari, in una qualche situazione tipo-ripetitiva (dalla sveglia all’uscita di casa, dalla salita in auto all’arrivo, dall’ingresso del supermarket alla cassa). 
Azioni concrete e identificabili.

2) Fate scegliere almeno 5 azioni dall’elenco

3) Chiedete di scrivere a destra in corrispondenza di queste un’azione diversa che porti comunque ad un risultato non catastrofico (se si riuscisse ad osare anche un po’ sul buffo sarebbe magnifico).
Un esempio banale: alla cassa del super arrivate sempre, per sicurezza,  con in mano portafoglio e tessera;  entrando nel negozio mettete entrambi in una tasca diversa dalla solita e  resistete all’estrazione fino a che la cassiera non vi dice l’importo del conto.

Poi fatelo/a ragionate un po’ fra sè e sè su quanto  è costato,quanto, ha divertito, e su quante altre cose avrebbe potuto fare senza peggiorare il risultato o forse migliorandolo.

Cambiare si può, magari cominciando dalle cose piccole.

giovedì 2 marzo 2017

All That Jazz



Ho sentito  colleghi proporre come metafora esperienziale del lavoro di gruppo la jazz band. Non che sia una grande novità: la prima volta che ho colto questa proposta (mai realizzata che io sappia però) credo fosse il  2002.
Parlandone comunque in giro, e approfondendo la cosa con dei veri musicisti, devo dire che in linea di principio l’idea ci sta: in un jazz team ci sono i solisti e gli accompagnatori, c’è la rotazione delle performance, c’è la presa di rischio e di responsabilità, c’è la progettazione del pezzo e le prove, c’è il riscontro di critica e pubblico. Una buona metafora insomma per il mondo del lavoro in gruppo.


Tutto giusto, solo che come metafora da sviluppare fuori da un conservatorio risulta piuttosto ardua: intanto il jazz  è un genere “difficile” che non molti capiscono o apprezzano, l’esperienza presuppone comunque un minimo di familiarità con uno strumento da parte di ciascuno dei partecipanti (in una tromba non si soffia come molti pensano ma si spernacchia…), la preparazione per arrivare ad un risultato minimamente accettabile e non-frustrante richiede un sacco di tempo.

Ergo, se si vuole lavorare con la musica forse conviene limitarsi alle percussioni,  più banali e  limitate ma facili da recuperare come strumenti, e di non impegnativo apprendimento (perfino io so, tenendo un minimo di tempo, battere il cucchiaio sul tavolo).  
E così si possono anche ottenere risultati in breve pure soddisfacenti. 


Però il tema che volevo sviluppare in questo post  partendo dalla parola jazz in realtà è un altro.

Faccio un giro un po’ lungo ma ci arrivo, abbiate fiducia.


L’altro giorno sento alla radio Paolo Fresu che dice  come il jazz sia simile al calcio, proprio per le motivazioni di cui parlavo all’inizio: solisti, gruppo, preparazione, collaborazione e sostegno.


E allora ho pensato: ma quale calcio, ‘sta roba è la metafora del  lavoro del formatore!


Un’aula di formazione, questa è la mia idea, diversamente da certe altre forme di docenza  va preparata sapendo che la musica da eseguire non sarà mai esattamente quella prevista, che la classe è un supporto-contrasto vivo, con sue esigenze e tempi mai uguali, che chi ti ascolta può essere in buona o in cattiva, interessato ad un pezzo di quel che dici e non a tutto. E con la voglia – necessità-possibilità di intervenire anche a sorpresa.

Il brano è un tema inizialmente limitato e definito, ma col tempo si snoda in modo da offrire altre possibilità a chi ascolta-partecipa, magari passando dalla negoziazione al cambiamento, dall’obiettivo al clima.

Io ho sempre pansato che un buon formatore sia innanzitutto un buon facilitatore, ma facilitare vuol dire saper ascoltare le difficoltà, le richieste, le attitudini e le competenze già acquisite di chi chiede di essere facilitato. E mettersi in sintonia con lui.


Nella mia ormai non tanto breve carriera ho visto docenti rigidi, incapaci di variare dall'idea che avevano predefinito, finendo per andare allo scontro con la classe a volte anche in modo duro, e ottenendo solo una contrapposizione stonata, senza nemmeno il risultato di portare a casa il risultato minimo che avevano predetermnato... Ne ho visti altri buttare slide e foglietti che si erano preparati e mettersi a disposizione dei discenti, ponendosi in una dimensione di collaborazione-sostegno reciproco con esiti da Umbria Jazz Festival.

Con l’aggiunta di divertirsi e divertire, anche toccando argomenti difficili; anzi, più erano bravi e più la difficoltà del tema li esaltava. Un po’ Miles Davis insomma.

Allora, tra jazzista e formatore forse non ci sono tante differenze: se non altro resta indiscutibile il concetto che se non sono rigidi, hanno coraggio e competenza quasi certamente otterranno un applauso finale vero e sincero.


Nino non avere paura / di cambare un’aula con rigore / non è mica da questi particolari / che si giudica un formatore./ Un formatore lo vedi dal coraggio/ dall’altruismo e dalla fantasia….