sabato 30 luglio 2016

Gioco (d'azzardo) e Formazione

el-golpe-newmanRiporto pari pari questo post perchè lo ha scritto una che ne sa, una che scrive bene e una che scrive cose che interessano chi frequenta questi luoghi.
Flaminia Brasini inventa giochi e videogiochi, scrive, progetta e realizza interventi di espressività, gioco e didattica. Ha all’attivo diverse collaborazioni con scuole e case editrici scolastiche. Ha ideato vari prodotti ludici, in rete e nella formazione a distanza. Ha gestito ludoteche e realizzato progetti di animazione ludica e culturale. Con  un gruppo di persone unite da esperienze e idee comuni sul gioco, sulla comunicazione e sull’educazione nel 2005 ha fondato ConUnGioco, educare e comunicare. “I temi che ci stanno più a cuore sono quelli legati alla relazione (con gli altri, con l’ambiente…), alla trasformazione, alla partecipazione, alla creatività: lavoriamo giocando e mettendoci in gioco.”
il suo blog è  http://comune-info.net/2016/07/gioco-azzardo-sappiamo-davvero-problema/




Sono una giocatrice, di quelli che giocano per il piacere di giocare, di stare insieme, di mettersi alla prova, non per soldi. Con il gioco ci lavoro pure, come educatrice.
Ho iniziato a occuparmi di gioco d’azzardo perché mi facevano arrabbiare quelli che parlavano di ludopatia riferendosi a persone dipendenti da certe forme di azzardo. E perché mi sembrava incredibile che qualcuno chiamasse giochi le slot machines.
All’inizio la questione mi pareva semplice: c’è il gioco sano, quello che ti fa stare bene, e c’è l’azzardo che, visto che può farti stare male, è cattivo.
Ovviamente, più ci pensavo più le cose non mi parevano così semplici.
E allora dov’era il nocciolo del problema?
La prima questione era distinguere gioco e azzardo: l’azzardo, per sua natura, esce dal cerchio perfetto del “puro gioco” nel momento stesso in cui non è “disinteressato”, mettendo in campo vincite reali e soldi. Inoltre il gioco d’azzardo si basa prevalentemente (a volte solamente) sulla fortuna e questo secondo alcuni è di per sé un male. Ma la presenza della fortuna (anche di una grossa componente di fortuna) in un gioco non mi pare poi così terribile: in fondo nella vita la fortuna c’è e, per chi considera i giochi anche come strumento educativo, il fatto che giocando si possa scoprire che esiste una tensione reale fra caso e logica, tra controllo e abbandono, con cui imparare a fare i conti, mi pare addirittura una potenzialità interessante e positiva. Il gioco permette di mettere insieme aspetti contraddittori, di lavorare sui paradossi, di stare nella complessità e questa è una delle sue caratteristiche più straordinarie. Logica e fortuna possono coesistere: si può lavorare con la logica, si può accettare la fortuna, si può addirittura cercare la logica dietro alla fortuna (la statistica, per esempio).
I soldi già sono un problema più serio, ma non credo siano di per sé e sempre il problema principale: se fra amici facciamo una partita a poker ogni tanto, in cui nessuno rischia nulla di rilevante per il suo benessere, nemmeno i soldi sono più un problema.
I soldi cambiano le motivazioni e gli esiti del gioco e così ne cambiano ogni aspetto (le emozioni, le relazioni, le potenzialità), eppure di per sé non sono sufficienti a escludere certi giochi d’azzardo dalla categoria dei “giochi”: il poker è un gioco senza dubbio, ma una slot lo è davvero?
Evidentemente conta anche quanto peso abbia la componente economica nel piacere di ciascun gioco e quanto “giocare a soldi” possa incidere realmente sulla vita reale dei giocatori (nessun “gioco” che mi faccia rischiare 1 euro è di per sé economicamente significativo per la mia vita).
Un’amica per aiutarmi ha provato a restringere il campo: “il problema non è l’azzardo, ma l’azzardo patologico”, il fatto che qualcuno con certi giochi possa perdere e perdersi, diventare dipendente e rovinarsi. Ok, questo lo riconosco come un problema. Ma mi pare la vetta di un iceberg. Perché riguarda solo una piccola parte di giocatori d’azzardo e perché temo riguardi solo giocatori con problemi di altra natura e precedenti al gioco stesso. In più su questo non saprei cosa fare, almeno nel caso di patologie conclamate.

Ho provato ad ascoltare qualche psicologo che si occupa del problema. Tralasciando gli aspetti clinici, che non mi competono, ho sentito alcune riflessioni che mi hanno colpita. Una in particolare ha fatto risuonare qualcosa: “i giochi che creano dipendenze si basano sulla fortuna e spingono totalmente su leve emotive: per contrastarli bisognerebbe lavorare con giochi basati sulla logica, giochi di abilità, in cui si vince con capacità e impegno”. La proposta era di riaffermare la razionalità contro l’emotività, l’abilità contro la fortuna. E ancora una volta i conti non mi tornavano. Effettivamente nella nostra società molto spesso ci attraggono e ci imbrogliano facendo leva sulla nostra emotività. Ma non mi pare proprio che si possa dire che viviamo in un mondo in cui la razionalità ha poco spazio! Forse il problema anche qui sta nell’innaturale tentativo di tenere separate le due sfere: razionalità da una parte, emotività dall’altra, dove c’è una non c’è l’altra e viceversa. Anche qui il gioco (quello vero) potrebbe fare molto: il gioco mette insieme emotivo e razionale, ci coinvolge nella nostra interezza e ci costringe a misurarci con diversi aspetti di noi stessi e a trovare conciliazioni e compromessi. Insomma, anche questa cosa dei giochi che puntano sull’emotività contro quelli razionali non mi tornava.
Allora mi sono trovata a pensare: cos’è che a me stona davvero? Cosa mi sembra così grave e doloroso da aver voglia di dedicare tempo e risorse a questa faccenda?
E per prima cosa mi sono venuti in mente i vecchietti del mio quartiere imbambolati davanti a una slot, o certe signore che conosco che si comprano un gratta e vinci dopo l’altro. Mi è venuto in mente il gioco (?) dei pacchi in TV e certi giochini del cellulare che ti acchiappano senza offrirti nessun piacere reale, ma solo con specchietti colorati… Ho pensato alle sale slot che hanno invaso Roma (e non solo) e alla loro infinita bruttezza.

Quando il gioco d’azzardo diventa indimenticabile: Paul Newman nei primi anni Settanta interpreta “La Stangata”
Per finire ho pensato al mio lavoro e ai ragazzi con cui provo ad impegnarmi. Uso il gioco come strumento educativo perché il gioco mi permette di rendere i ragazzi protagonisti, mi permette di dire loro (sempre, qualsiasi sia il tema del nostro lavoro insieme) “tu sai pensare, tu sai inventare, tu sai agire a seconda di quel che hai sperimentato/pensato/sentito; tu puoi scegliere, tu puoi cambiare le cose”. I giochi con cui lavoro dicono sempre questo, perché sono veri giochi: ti mettono in gioco, appunto, ti fanno confrontare con te stesso, con gli altri, con una realtà (simulata e semplificata quanto vogliamo, ma comunque complessa, mutevole, modificabile con le azioni dei giocatori).
Così ho focalizzato: per me il problema non è certo il gioco! Ma nemmeno l’azzardo in sé. Non è solo la patologia (azzardopatia, per chiamarla col suo nome), né il prevalere in certi giochi di fortuna o emotività.
Per me il problema è un modello culturale che sta dentro a certi giochi che ci hanno invasi e conquistati. Sta nelle slot e nei gratta e vinci e nel gioco (?) dei pacchi in TV. È un modello culturale che dice “tu non sei in grado di cambiare la tua vita con le tue risorse, con le tue scelte, con le tue azioni… affidati a qualcos’altro e spera bene”. Ti puoi affidare alla fortuna o a chi vuoi tu, ma è comunque inutile che ti impegni: stacca pure il cervello, rilassati, perditi e spera.
Ovviamente non sto parlando di un complotto!
Parlo di un modello culturale che semplicemente si adatta così alla perfezione con la nostra politica, con la nostra economia (legale e illegale!), con la nostra storia culturale e educativa (gioco, partecipazione e cittadinanza sono ancora lontani dalle nostre scuole), da essersi affermato senza trovare resistenze, o trovandone troppo poche.
Ecco, io vorrei lavorare per contrastare questo modello culturale. Vorrei farlo giocando, facendo giocare e se serve anche lottando un po’.