domenica 1 marzo 2015

Come vivere avventure esperienziali vere, senza uscire di sede (né di testa)



Nel libro di Harry Potter si arriva a Hogwarts, la scuola di magìa, salendo su un treno che parte da un binario ufficialmente inesistente, a metà fra altri due ufficialmente esistenti. È un binario vero, ma visibile solo dall’élite magica, dato che i babbani (i non maghi) non riescono neanche a concepirlo.
Anche nella esperienzialità della formazione esiste una zona nebbiosa e a molti sconosciuta, a metà strada fra la pratica outdoor e quella fatta in aula, seduti sulle seggioline.  E’ la zona del gioco di ruolo “quello vero”, della metafora da indossare e in cui avvolgersi per vivere avventure e esperienze della mente. Detto così potrebbe sembrare roba ipnotico-new age-fideistico, ma di fatto l’utilizzo del role playing in termini di esperienza applicata alla formazione aziendale  ha una potenza davvero reale e concreta. E sperimentata, oltre che da me, da molti altri miei colleghi, sia pur poco considerata nella letteratura.
A dire il vero di role play si parla in molti testi, ma di solito si fa riferimento alla simulazione “teatrale” di situazioni aziendali. Tipo: il venditore col cliente, o il capo col collaboratore. Simulare il caso concreto per capire come gestirlo meglio ha la sua indiscussa efficacia, in termini di sviluppo di competenze hard (concrete, professionali):  adesso ho capito quali parole devo usare in caso il cliente sia raffreddato… e così via.
Non è però altrettanto efficace quando si lavora sulle competenze soft, quelle trasversali non applicabili ad un caso specifico, ma che devono essere elaborate in termini di complessità teorica e poi applicate nella vita lavorativa attraverso il filtro dell’elaborazione individuale. Qui riprodurre il caso concreto perde la sua validità, perché più questo è attinente al compito lavorativo e più risulta limitata la trasferibilità su casi analoghi ma diversi. Al contrario funziona molto meglio il caso totalmente fuori contesto aziendale, purché progettato attentamente attraverso la metafora, per lavorare anche con molta precisione  sulla singola capacità-focus della formazione.

Come invero accade abbastanza facilmente (e intuitivamente) nelle situazioni outdoor, laddove attraverso la prova di coraggio sui cavi alti, la camminata nel bosco notturna o l’orienteering nelle paludi del Polesine si mettono alla prova proprio competenze non “lavorative” ma intuitivamente (si spera) parallele all’ambiente concreto. Ci sono tuttavia alcuni limiti alla simulazione outdoor.
Innanzitutto il costo in tempo e logistica: inutile dire che portare 15 persone sugli altopiani abruzzesi  due giorni costa più del tenerli altrettanto in aula, in sede. Magari sarà più figo, per certi aspetti sarà più memorizzabile, sotto alcuni punti di vista più premiante (nel senso di incentive) ma senza dubbio costa di più. Anche in tempo utile di formazione: ci sono molti tempi morti.
In secondo luogo la maggior parte delle componenti di rischio non può essere applicata davvero: è evidente, anche a chi ci sta sopra, che la sicurezza del ponte tibetano deve essere garantita da cime certificate e piombate a regola di guida alpina, che il cavetto di acciaio e l’imbragatura devono essere controllati e indossati correttamente, e così via. Non è un caso se il 99,99 % degli incidenti in un outdoor avvengono scivolando sul lavandino dell’albergo o mettendo male un piede nell’attraversamento del prato accanto alla baita. Il che significa, -ad esempio lavorando sulla presa di decisione - che se ci sono rocce affioranti lo skipper della barca a vela formativa può solo “fingere” di lasciarla alla guida del partecipante insicuro… Salvo in casi di rarissimi  di “extreme outplacement”, le aziende non gradiscono che si perdano fisicamente i loro dipendenti.
Altri outdoor limiti: richiede programmazione (si dipende spesso da enti esterni: i gommoni dei rafter non aspettano solo noi), la meteo è ingovernabile (una barca a vela in bonaccia è un ambiente non consono al teamworking), a volte i limiti fisici delle persone sono un ostacolo difficile da prevedere (cardiopatici, ex fratturati ecc.). Senza contare i diversamente abili, molto spesso esclusi da queste esperienze.

L’aula ovviamente salta tutte queste considerazioni negative, ma al contrario è poco “incentive”, limitante emotivamente e astratta anche nei suoi giochi canonici, spesso inevitabilmente “vecchia” o almeno già vissuta nei suoi modi di approcciare la docenza.

Ma proviamo a passare alla metaferrovia, saltiamo al binario 9 e ¾ tra palco e realtà (scusate la citazione ligabuiana) e attiviamo quella sfera troppe volte poco considerata che è la fantasia: giochiamo davvero, non in esercitazione d’aula, giochiamo che eravamo, come dicono i bambini, che se ne intendono di crescita intellettuale. Ma non giochiamo a cliente e un fornitore,  dottore e paziente: giochiamo ad essere eroi, maghi, amazzoni… apriamo la mente alla possibilità di immaginarci in un posto diverso, con abiti diversi, con compagni diversi da quelli che crediamo di incontrare tutti i giorni. E tentiamo di vivere quel ruolo come fosse un’avventura sconnessa dalla realtà quotidiana. I giochi di ruolo ”ludici” richiedono solo una buona capacità di descrizione, un master sufficientemente attorale  (e chi non si ritiene tale fra i formatori?) e un percorso studiato in modo da porre le persone in condizione di sperimentare nella immaginazione e nella metafora ambienti e  problemi “paralleli” a quelli reali, meglio se invisibili come tali alla prima analisi.
Prima considerazione: costi logistici zero, anche se è assolutamente necessario trovare location sia pur interne che garantiscano come in nessun caso i partecipanti, nel momento in cui agiscono da draghi e maghi, possano essere visti da colleghi di passaggio fuori metafora. O peggio ancora interrotti dalla segretaria con un “dottore-scusi-solo-un-attimo-c’è-da-firmare-questo…”
La fantasia può portare anche all’isola che non c’è, ma il patto d’aula deve essere che volano solo e tutti quelli che sono d’accordo a sognarla. Senza estranei a vedere né riporti alla realtà, se no si cade in volo. E ci si può fare molto male.
Seconda considerazione: rischi realmente astratti fino alla conclusione più estrema. Non si immagina quanto rimanga davvero male il partecipante - e i suoi compagni- quando nell’avventura osa troppo e “muore”.. perché nei role playing i rischi sono veri e non filtrati da controlli assicurativi. E chi sbaglia paga fino in fondo.
Terza considerazione: l’avventura può essere strutturata in progettazione senza nessun limite. Si può far parlare a folle oceaniche, si può chiedere di decidere della salvezza di altri; si può andare in Giappone o in Africa, o a Parigi; si possono saltare e tagliare tempi morti con un semplice “ma adesso siamo tornati tutti alla reggia di Artù”. Unica accortezza usare sfondi e ambienti metaforici che tutti ragionevolmente conoscono: si evitano lunghe presentazioni e si può lavorare sulla percezione diversa delle diverse persone su fatti e avvenimenti comuni. Il cinema aiuta moltissimo in questo: basta dire  il tempio maya di indiana Jones e tutti sanno esattamente a cosa si trovano davanti, e cosa si possono aspettare da quella grande sfera di pietra che sporge sempre lassù dal bordo del secondo anello.
Anche la possibilità di variare focalizzazione degli output formativi in corso d’opera è enormemente più attuabile quando si parla di avventure immaginate rispetto a quelle reali sul campo: se il gruppo si impunta a non voler definire la leadership, in quanto master direttore dell’avventura posso fare spuntare una macchina diabolica che impone delle scelte  ad un partecipante specifico, mentre in un bosco non posso far cambiare il percorso predefinito (se no si perdono davvero, fa buio, salta la prova successiva sul gommone ecc.)

Problemi possibili: i partecipanti rifiutano di mettersi a giocare davvero, dichiarano che questa è roba da bambini. Non posso fornire garanzie teorico psicologiche sulla disponibilità del tipico ingegnere a diventare elfo, ma ho chiesto di farlo nelle dovute maniere (premettendo l’aspetto teorico formativo, specificando gli obiettivi e chiedendo un patto d’aula molto preciso) a molte centinaia di ingegneri, medici e paramedici, insegnanti, dirigenti e impiegati, ed ho avuto in 15 anni di pratica due (2) rifiuti. A parte che gli ingegneri malgrado la cattiva fama sono poi  i più disponibili - e bravi - a uscire dal guscio della loro ingegnerìa se glielo si concede in modo corretto…
Certo è sconsigliabile usare questa tecnica formativa se entrano in campo valutazioni da parte dell’azienda (che comunque devono, per deontologia professionale, essere sempre dichiarate dall’inizio e  accettate dai partecipanti) ; é condivisibile chi dice “non mi gioco il posto per un rebus o la treccia di una principessa metaforica”, ma questo credo valga per tutto ciò che lavora in metafora.
Mentre quando si lavora sull’auto percezione e sul feedback dei colleghi per poter crescere in autonomia (self empowerment) , le mie esperienze mi dicono che il mezzo non solo è accettato ma anche molto apprezzato.
Altro problema, la scissione psicologica fra agente reale e agente metaforico: non sono stato io a tradire i colleghi, è stato l’elfo che interpretavo e si sa che gli elfi tradiscono sempre. Questo può succedere se non si lavora prima molto bene sul chiarire che l’aspetto immaginario sta solo intorno alle persone reali, intanto facendo scegliere i personaggi in base alla maggior sintonia possibile con il proprio sentirsi, e poi facendo dichiarare da subito limiti e possibilità concrete da riportare nel mondo fantastico : per esempio, se non sei capace di nuotare non nuoterai nemmeno nell’avventura, se sei alto 2 metri e 5 non potrai intrufolarti facilmente in una galleria da 50 cm di diametro. Con questo si possono garantire bellissime avventure mantenendo una connessione molto stretta, anche psicologica, fra personaggio e attore, e garantendo in questo modo un forte limite alla fuga giustificante attraverso lo specchio della metafora. E quindi la massima efficacia dell’esperienzialità.

La prima volta che ho sperimentato questa metodologia correva l’anno 1991 (quasi 20 anni fa), la compagnia dell’Anello che produsse il primo prototipo era composta da gente che si è fatta poi nomi “seri” nella formazione (in ordine sparso e sperando di non scordare nessuno : Matteo Rosa, Emanuele Kettlitz, Maurizio Corbani, Susanna Mazzeschi, Renata Averna, Renata Rossi, Marina Rossi, Teresa Chambry, Fernanda Siboni e Chiara Martinelli, con un sussulto di suggerimenti anche dal guru Massimo Bruscaglioni, esterno al team ma a conoscenza della cosa). Il nome del gioco nella sua prima edizione specifica era Skandinsky Platz, l’ambientazione una  metropolitana che andava a fuoco portando i passeggeri in situazioni sempre più drammatiche e problematiche, il focus formativo sul self empowerment, e il primo cliente ad usarlo fu Italtel. Presto seguito da molti altri fra cui Microsoft, Finmeccanica, RAI, Astra Zeneca, GSK e molti altri.
E ancora oggi, quando mi capita di incontrare qualcuno che aveva partecipato a quei corsi, li ascolto ricordare non di un’aula o una sedia sotto cui erano passati, ma di una galleria fumosa, un cunicolo pieno di topi giganti semiparlanti e di colleghi altrettanto stressati da una storia indimenticata anche a decine (ormai) di anni. Potenza della fantasia.