venerdì 5 settembre 2014

Giochiamo che facevo la doccia?



Questa estate si è fatto un gran parlare di  ice bucket challenge, la prassi-sfida di tirarsi un secchiata di acqua gelida in nome della ricerca sulla SLA. 
Che ha fruttato, e ne siamo tutti felici spero, più di un milione e trecentomila eurii al momento in cui scrivo. I quali verranno usati davvero a favore dei pazienti e delle loro famiglie: garantisco personalmente per conoscenza diretta.
Ma ha fruttato anche molte polemiche, perché siamo italiani e a restare sull’obiettivo perdendo l’occasione di dire pirlate non ce la facciamo proprio. 

Nell’ambito del ristretto mondo del gioco e dei suoi “esperti”, sempre questa estate, si è parlato molto di ludopatia, azzardopatia e gamification. Il che ha fruttato anche qui molte polemiche, perché siamo italiani eccetera. 
Estrapolando il terzo elemento (dei primi due ne parleremo senz'altro un'altra volta) mi sono chiesto se la secchiata sfidante poteva rientrare tecnicamente nel mondo del gioco, via appunto gamification, e nello specifico del gioco formativo. 

E mi son detto che sì. Richiamiamo un attimo il grande spirito categorizzante di Caillois (come detto in altri post, se non sapete chi è perché leggete questo blog?):

a) L’agon c’è senza dubbio: il meccanismo è quello di fare una mossa – secchiarsi e versare un’offerta- sfidando qualcun altro a fare lo stesso anche lui.
b) L’ilinx pure: provate voi a versarvi  addosso un secchio di acqua fredda e vi assicuro che vi vengono le vertigini.
c) La mimicry la vedo soprattutto nell’ attorialità del gesto, che non a caso ha visto impegnarsi molti attori della politica e dello show biz.
d) L’alea a qualcuno  formalmente  potrebbe sembrare  un po’ mancare, ma se guardiamo bene sta proprio nell’ incertezza del ricavato: e infatti possiamo dire che la famiglia dei malati ha vinto la sua piccola lotteria.

Quindi la gamification qui c'è ed ha funzionato: proporre un’attività sotto forma di gioco per arrivare ad un risultato (conoscenza della malattia, raccolta di fondi per combatterla) che altrimenti avrebbe avuto molte più difficoltà ad essere raggiunto attraverso canali “seriori e razionali” forma proprio la base del termine di cui sopra.

Cosa posso imparare/confermare da questa analisi, sempre inevitabilmente superficiale come tutte le mie?
1)            Che il gioco è una leva straordinaria per stimolare a obiettivi che possono essere anche consapevolmente  molto seri, e che quindi qualche lettura riduttiva di Huizinga (altro nome che dovete conoscere, se no perché siete qui?), lettura secondo cui per definire una cosa  gioco dobbiamo per forza restare nell’inutile assoluto, forse va rivista. E io la sto rivedendo sempre più spesso, ad esempio organizzando esperienze ludico-formative, che hanno come obiettivo consapevole vincere una gara a fare qualcosa di  socialmente utile.
2)                  Che impuntarsi troppo sulle definizioni e sulle classificazioni a qualcuno fa perdere di vista l’obiettivo che ci si era dato quando si erano prese in considerazione le stesse.
3)                  Che siamo italiani e a restare sull’obiettivo perdendo l’occasione di dire pirlate non ce la facciamo proprio.