lunedì 28 gennaio 2013

GIOCO E COACHING


Come quasi tutti i professionisti del settore sanno, il termine coach deriva da quello inglese atto a identificare un tipo di carrozza utilizzata nell'800 per il trasporto di persone. Termine che a sua volta pare derivare dal villaggio ungherese di Kochs, vicino Budapest, patria di abili produttori di queste carrozze. Per metonimia (figura retorica caratterizzata dalla sostituzione di un termine con un altro, che abbia col primo un rapporto di contiguità: nel nostro caso lo strumento e la persona che lo usa) il termine è passato a colui che guida la carrozza, e quindi in metafora accompagna una persona o un gruppo di persone da una situazione attuale ad una desiderata. Con ulteriore salto linguistico negli anni ’70 il coach diventa per definizione allenatore sportivo, colui che gestendo una squadra permette ai suoi atleti di affrontare e possibilmente superare i loro limiti. 
E poi per passaggio generalizzante allenatore di competenze vitali e lavorative.


Il mondo dello sport/gioco ha quindi una forte connessione genetica con quello del coaching, connessione che va anche oltre quella della sua origine etimologica.
Si possono trovare e usare infatti diversi modelli di gioco per rendere più efficace il coaching.
Un esempio di gioco pensato apposta per aiutare questa forma di consulenza personale è Points of You (in italiano Coaching Game), un mix di I ching e Tarocchi acquistabile a 169 dollari su Amazon. Ideato dal coach israeliano Efrat Shani e tradotto nel bel paese da Luisa Ferrario, il sacchetto-scatola-confezione contiene un mazzo di 65 carte illustrate, un libro con stimoli per un efficace story telling e citazioni varie, più un certo numero di appunti sul coaching e un tavoliere a quattro quadranti utile per sottolineare il processo in generale.

Dicono i suoi fondamenti di marketing che può essere usato da soli, in coppia o in gruppo, soprattutto per avere stimoli e aiutare le risposte alle domande del coach. A fare da motorino di avviamento insomma al processo di analisi e di implementazione personale.
Gli autori sostengono che serva a superare vecchi schemi e introdurre un nuovo approccio creativo per generare una comunicazione più chiara e di qualità tra le persone.

Questo è un gioco studiato apposta per incrementare le possibilità di efficacia di una sessione di coaching. Ma esistono anche altre possibilità di incrementare l’efficacia attraverso giochi non studiati ad hoc?
Considerando tanto per cominciare che la base fondamentale di questa pratica è la capacità di fare domande, e farle in modo corretto, cioè aperto e orientato a portare il coachee ad esplorare il suo futuro, non dovrebbe essere così difficile: molto giochi usano proprio le domande come strumento. Si potrebbe allora pensare di elaborare una sorta di trivial preparando delle carte domande vitali, magari inizialmente chiuse che devono essere rielaborate in modalità aperta da chi le pesca? 

Ad esempio Assist, un gioco di carte e domande libere, propone un meccanismo con cui si può per l’appunto fare esperienza in questa “disciplina” inquisitoria. Il concetto è semplice: divisi in tre team o tre giocatori, uno pensa ad una parola e gli altri devono a turno fare domande per indovinarla. Domande libere, con la consapevolezza però che al proprio turno O si fa una domanda O si prova a indovinare. 

Il titolo Assist deriva dal fatto che se le domande sono troppo identificative si favorisce l’avversario…  Essendo totalmente libera e varia la parola pensata (si può andare da sorriso a casa a transustanziazione, tanto alla fine si indovinano sempre) le domande dovrebbero essere in prima battuta aperte e poi una volta ristretta l’ipotesi in gioco sempre più chiuse per identificare al meglio la soluzione. Il che è quello che dovrebbe appunto fare un buon coach, e che risulta tanto difficile a tanti coach “iniziali”. Assist è stato progettato dal chi scrive insieme ad Angelo Porazzi, che lo ha evoluto anche  in ottica di didattica infantile (lo potete chiedere direttamente a lui tramite mail anporaz@libero.it , nella sua versione commerciale normale costa solo 10 euro).

Un altro elemento rapportabile al mondo ludico del coaching è il gioco di ruolo.
La domanda “cosa faresti se avessi una bacchetta magica?” non vi fa risuonare nulla? Bene, è anche una delle tipiche domande che fa il master di un role playing ai giocatori. Un ottimo spunto quindi per liberare la fantasia del coachee potrebbe essere lo spaziare nel mondo dei giochi di ruolo, attività  in cui il giocatore indossa i panni di un personaggio letterario per svolgere una missione guidata da un direttore di gioco-regista. Di solito l’ambiente è quello fantasy della magia e dell’eroismo, ma se ne trovano davvero di ogni tipo, colore e declinazione letteraria. Come ad esempio On Stage!, un progetto di Luca Giuliano, professore associato a La Sapienza di Roma , che si occupa di gioco di ruolo e delle sue applicazioni in ambiti il più possibile allargati dal 1983 .
On Stage! è un gioco  al confine tra i tradizionali giochi di ruolo, i giochi di narrazione e l'improvvisazione teatrale . La differenza sostanziale tra i canonici role playing e On Stage! consiste nel fatto che nei primi i personaggi e le loro interazioni sono di solito definiti in maniera più o meno rigida da dadi  e tabelle, mentre in On Stage! il meccanismo è strettamente legato all'interpretazione del proprio ruolo. Per informazioni potete scrivere direttamente al suddetto Giuliano (lo trovate in Linkedin) o al suo editore http://www.dasproduction.it/DaS.html



domenica 20 gennaio 2013

NON HO PAROLE...


Sono stato, come mi succede da un po’ di anni in qua in questi giorni, a Torino. C’era IDEAG 2013, una gran bella idea (IDEA) legata al gioco (G), abbastanza differente da tante altre belle idee-iniziative che riempiono ormai quasi tutti i weekend italiani in tantissime città.

L’originalità di IDEAG sta nell’eredità congenita della manifestazione, che nasce, collegandosi non sbaglio ad un più informale incontro fa autori più di sei anni fa fra le colline di Berceto (Pr), come incontro quasi puro fra autori (si trovano solo giochi inediti) che fra loro giocano, provano i prototipi e si aiutano a vicenda.
Tra i tavoli -un centinaio circa- si aggirano anche piccoli editori (e qualche volta pure qualche grande) che ascoltano, prendono nota e a volte decidono di pubblicare quel che vedono.
A latere alcune mini conferenze di gente che ha già raggiunto il successo, e che spiega-aiuta-consiglia i neofiti su mercato, produzione e trucchi editoriali.

Gente bella, neanche esageratamente monomaniaca, in spirito di condivisione e di curiosa implementazione di idee. Fra tanti lasciatemi citare due dei principali anfitrioni: l’ormai mitico Walter Obert, uno dei fondatori dell’iniziativa, e l’altrettanto mitica Paoletta, una delle rarissime organizzatrici al femminile (insieme alla Babs  milanese) di cose legate al gioco.
Anche piacevolmente carina, se posso aggiungere.

Io vado a IDEA non per giocare, cosa che non amo poi molto fare, ma per ascoltare, guardare, annusare il mondo del gioco, cosa che invece mi piace tantissimo fare. E imparare: c’è sempre qualcosa da imparare. E vedere se mi vengono idee anche per il lavoro.
La maggior parte dei prodotti esposti si definivano una volta “gioconi”: tante pedine, tante carte, soprattutto tante regole.  Roba molto bella, frutto di tanto studio e test, ma che non mi interessa più tanto in ottica formativa: troppo orientata ad un target di giocatori veri, non occasionali o addirittura “costretti”. Quel che cerco in queste occasioni sono idee, concetti semplici ma originali (o almeno a me sconosciuti), modelli base fondanti immediati. Il più possibile contaminabili in chiave formativa

A un tavolo ho scoperto un autore che già conoscevo, ma non poi tanto, Luca Bellini, che mi ha fatto vedere un paio dei suoi prototipi, tutti molto legati al concetto di stress temporale.  Qualcosa che ripreso ed evoluto (o semplificato se si vuole) potrebbe appunto entrare nelle aule di cui si parla in questo blog.

Uno di questi è basato su una dotazione molto basica: una decina di dadi con lettere al posto dei numeri, una clessidra alcune carte con parole diverse.  La disposizione delle lettere sui numeri non è casuale ma derivata da una bella ricerca sulle frequenza statistiche delle iniziali in italiano, se volete sapere di più della quale potete scrivere all’autore (bellalli@libero.it).
Si chiama NON HO PAROLE…
Il meccanismo è semplicissimo: il giocatore di turno lancia i dadi e –entro il tempo della clessidra- deve fare indovinare ad altri giocatori la parola che gli è stata assegnata dalla carta, ma usando solo parole che cominciano lettere dettate dai dadi lanciati. Se non gli viene in mente nulla (se non ha parole…) può tirare di nuovo a suo piacere tutti o parte dei dadi-lettere, tutte le volte che vuole, ma sempre comunque entro la clessidra.

Su chi vince e chi perde si sta ancora discutendo con molte proposte e varianti,  la cosa riguarda l’aspetto ludico del problema.
L’aspetto di utilità formativa sta invece nell’evidente sottolineatura di come si sviluppa  (e come si sviluppa in modo diverso da persona a persona) la tensione creata dalla necessità di pensare, decidere e relazionarsi con altri che non ti capiscono entro tempi brevi e obbligati.
Tensione che si ritrova ad esempio in tutti i modelli di negoziazione.

Allo stesso tavolo ho visto persone stimolate dallo stress temporale e altre (come me per esempio) che dopo due mani non reggono lo stesso stress e si alzano dal tavolo di gioco. Per i primi in campo lavorativo sarà bene tenere sempre un livello di tensione alta per ottenere i migliori risultati, per i secondi sarà invece meglio controllarlo al ribasso, ritagliando quando possibile spazi di riserva temporali per poter decidere al meglio.

Una bella idea, un prototipo che forse diventerà un bel gioco anche commerciale, di certo uno stimolo esperienziale molto interessante.
Ebbravo Luca.

martedì 15 gennaio 2013

The renovators


Adoro quelli che hanno il coraggio di rivedere -a volte- le proprie opinioni, e ora cerco entrare nel club di questi. 
Ho appena visto -causa mini influenza- una trasmissione su Cielo che si chiama The renovators, produzione australiana.
Nel post precedente dicevo di come ormai ogni hobby ha un suo gioco-talent-reality, di solito violento, competitivo e diseducativo. Cioè inadatto al nostro tema formativo. In effetti avevo torto: non tutti i Talent sono così.
Questo infatti al contrario, se volete prendere spunto da qualche format tv per proporre modelli formativi esperienziali di qualità, è assolutamente perfetto.
Obiettivo: lavorare sul recupero di vecchi mobili, arredare stanze, fare bricolage insomma.
Un tema adatto sia a maschi che a femmine, primo plus.

Gestito da giudici moderati, competenti e attenti a non offendere né addolorare troppo nessun concorrente, stimolanti nella sfida ma anche attenti a far gestire al meglio il tempo di lavoro. E a supportare i concorrenti. Secondo plus.

Una struttura di gara che prevede una iniziale selezione in base alla meritocrazia, con recupero però alla fine di tutti, perché i vincitori individuali (quelli che arrivano alla fine della selezione) possono/devono coinvolgere gli eliminati precedenti creando un team che li aiuti nella sfida finale più impegnativa.
Il criterio di reclutamento per ogni leader è competenza, valorizzazione delle differenze ma anche relazione e empatia, condivisione, analisi delle responsabilità.
Terzo plus, valorizzare l’individuo all’interno dell’obiettivo comune.

Insomma, un bel programma e un bel progetto da cannibalizzare portandolo in aula.
Su Cielo (in analogico) dal lunedì al venerdì ore 17.30 circa

sabato 12 gennaio 2013

Ave Flavio (Briatore) morituri te salutant


Che tu sia interessato a cucina,  magia, management o musica, se guardi la tv di questi tempi scopri che la tua passione è legata ad un reality. 
Ad un Reality game. 
Ad un Reality game modello molto McKinsey UporOut Policy, cioè un modello competitivo estremo, nel senso che non solo chi perde è eliminato, ma anche in modo il più possibile violento, avvilente, subornante.

Credo che solo alcune leggi sulla tutela della morale e dei minori limitino l’espulsione dei perdenti a questi giochi in una dimensione virtual-emotiva, impedendo agli autori e curatori di attivare quello che probabilmente nella logica dello share sarebbe il massimo: la violenza fisica, possibilmente protratta e in chiave espressamente sadica. Magari col sangue. Magari col decesso finale reale, come si poteva fare una volta, tipo Anfitetro-Flavio-quello-vero, detto anche dagli amici Colosseo.

Se non sbaglio in Italia  la madrina di questo format gladiatorio moderno è stata la mitica Maria de Filippi, coi suoi “amici” traditori, infidi, voltagabbana, istigati dal pubblico e dalle giurie dei “sapienti”, ma certo i suoi emuli non le sono stati molto inferiori.

In ogni gioco televisivo ormai c’è l’eliminazione il più “cattiva”possibile, in termini anche ormai decisamente volgari: ho sentito io, non è leggenda metropolitana “la tua pasta è una merda, vattene che mi fai schifo… la tua performance magica è penosa, sei bravo a cantare, vai a fare quello…. se non sei capace nemmeno di tener conto di questi minimi elementi non sei degno del concetto di management, sei fuori…”
Il tutto in un contesto sempre uguale: persone cui la qualifica di giudice (indipendentemente dal loro effettivo spessore morale, tecnico o spettacolare) consente una relazione quasi morbosa di accanimento sulle vittime partecipanti.
E appunto i partecipanti, che in una dimensione da sindrome di Stoccolma (da Wikipedia:  Il soggetto affetto da Sindrome di Stoccolma prova un sentimento positivo, fino all’amore, nei confronti del proprio aguzzino, creando una sorta di alleanza e solidarietà tra la vittima e il carnefice) si assoggettano alle peggiori  sopraffazioni, godendo dei rari momenti di apprezzamento, che ovviamente culminano nell’orgasmo finale quando uno vince il gioco, avendo inevitabilmente “sterminato” tutti i concorrenti. Il premio?  In quasi tutti i casi il finire nell’oblio entro i due o tre mesi successivi.
Naturalmente il tutto in un contesto di competizione globale alla quale tutto è concesso, soprattutto la maldicenza, il tradimento e l’abbandono delle alleanze (sia mai detto che si creassero). E se per caso si dà spazio a collaborazioni, lo si fa solo in vista di un ancor più cruento redde rationem finale già ben chiaro e annunciato.

Guardo tutto ciò (labilmente, lo ammetto, di solito durante lo zapping pubblicitario, ma è impossibile evitarlo del tutto) e penso a quello che cerco di portare in azienda quando faccio formazione: la logica win win, la negoziazione efficace, la comunicazione orientata all’obiettivo comune, il teamworking. 
Non il buonismo, ma l’efficacia, l’utilità proprio del contrario di tutto questo palinsesto televisivo.

E penso a Robert Sennett, un povero pirla laureatosi col massimo dei voti nel 1964 all' Università di Chicago, Ph.D.  ad Harvard , professore Incaricato alla Yale University, direttore di un programma di studio sulla famiglia urbana presso il Cambridge Institute, eletto Membro di Facoltà alla New York University, che oggi insegna sociologia presso la London School of Economics e storia alla New York University, mentre è Adjunct Professor di sociologia al MIT.

Il quale spiega abbastanza scientificamente come nell’ambito sociale e lavorativo la base del successo è la collaborazione, la fiducia, l’orientamento a condividere l’obiettivo.
E allora spengo la televisione e mi metto a leggere il suo ultimo libro sull’Uomo Artigiano, (Feltrinelli in offerta a 9 euro in questi giorni), cercando al contempo di capire cosa impedisce agli autori e curatori della televisione, non  solo quella italiana ma soprattutto loro, di capire che una parte della responsabilità di certi scontri sociali, di certe crisi economiche e finanziarie, di certe relazioni che finiscono in crimine è anche loro,  anche dei modelli che propongono come gioco, spettacolo, specchio di vita. E magari non in piccola parte.

Vuoi dire che lo fanno perché è più facile seguire le pulsioni di quello che una volta veniva chiamato popolo da panem et circenses, piuttosto che provare a proporre idee al tempo stesso divertenti ma anche utili alla crescita di chi sta davanti allo schermo?

La ggente, signora mia, preferiscono da vedere quelli che se ‘ncazzeno: sò così libberatori…..