martedì 31 luglio 2012

Meditazioni un po’ borderline di un mattino di fine luglio

 E’  quasi agosto, non ho molto da fare e navigo in internet non potendo (eh, quanto mi piacerebbe…) farlo nel mar Egeo… Così invece dell’isola di Ulisse vedo all’orizzonte il titolo di una tesi che mi pare interessante per il nostro blog: Gioco e Formazione, autore Stefano Gualtieri, corso di Mktg e comunicazione d’azienda presso l’Università statale di Modena e Reggio Emilia.
Accosto e vedo l’abstract che recita: “La tesi ambisce ad analizzare l'importanza della formazione nell’ iter del lavoratore e lo fa prestando particolare attenzione e valorizzando il metodo didattico del gioco.
Questo, introdotto in modo massiccio e centrale nel processo formativo oppure soltanto accostato a più tradizionali metodi di insegnamento, offre un valore aggiunto ad ogni tipo di corso, che sia questo obbligatorio/facoltativo, di apprendistato/livello manageriale,... “
L’indice (consultabile gratuitamente) ipotizza, in 60 pagine, argomenti abbastanza consueti, come –vado saltellando qua e là- l’analisi dei bisogni, i role playing e ovviamente giochi d’aula e gioco tout court in un capitolo apposito.
Il che non vuole dire praticamente nulla. Per sapere di fatto cosa c’è in questa tesi dovrei pagare 29.65 Euro, e per la sola bibliografia 6 Euro circa. Che non ho pagato, sulla base dello stesso ragionamento per cui se mi chiedono di pagare per ormeggiare in un posto che non conosco, di solito lo evito. Se a qualcuno comunque interessasse il sito dove trovarla è http://www.tesionline.it/consult/info-tesi.jsp?idt=13873
Quello su cui vorrei invece meditare un attimo è: nell’epoca della Wikinomics 2.0 e oltre, qual é il senso di fare pagare la consultazione di una tesi? Economico non credo: non per fare i conti in tasca a Stefano ma credo che se dall’operazione globale ha recuperato 50 euro in tutto è tanto. Di promozione personale neanche, visto che quasi trenta euro limitano decisamente il contatto con l’autore. Mettiamo che il Gualtieri invece avesse messo  il suo testo online come PDF gratuito: io avrei trovato comunque il testo perché cercavo le parole chiave, non tesi online; attraverso una mia citazione di contenuto (e non di questa meditazione) magari sarebbe arrivato di rimbalzo in Facebook, poi potenzialmente alla community della Formazione Esperienziale. E almeno 2500 professionisti e HR avrebbero letto il suo nome e magari condiviso il suo contributo. Strategicamente avrebbe avuto più senso, e magari anche economicamente…
Forse dovremmo un po’ rivedere il concetto di generosità egoistica funzionale, oggi ci sono gli strumenti per farlo. Credo eh.

venerdì 27 luglio 2012

Piccolo esempio di gioco di ruolo didattico da scuola media "avanzata"





Da un commento al post di Brenda da parte di  Poldeold09 maggio 2012 09:22
Applicabile alla val di Susa?
Insegno geografia in una scuola media e in un liceo in Svizzera. Da noi questa materia occupa uno spazio importante nel ciclo di studi proposto dalla scuola e viene sviluppata secondo programmi che in parte riprendono modelli didattici francesi o tedeschi. Senza offesa, ma i programmi italiani purtroppo danno poco spazio a questa stupenda materia.
Cmq sia, ho trattato insieme ad una 2a media il tema del raddoppio del tunnel autostradale del San Gottardo (tra Ticino e Svizzera tedesca) che è di stretta attualità di questi tempi da noi.
Ho creato alcuni gruppi secondo le idee e l’indole dei ragazzi:
1) Un gruppo di “politici” a favore del raddoppio;
2) Un gruppo di “politici” contrari al raddoppio;
3) Una lobby ambientalista;
4) Una lobby degli autotrasportatori.
Poi, in gruppo, dovevano discutere per organizzare delle argomentazioni che appoggiassero le loro opinioni a riguardo. Finita questa fase ogni fazione presentava in un tempo stabilito (per par condicio) ciò che era risputato dalla consultazione e alla fine si faceva una votazione.
Questo piccolo gioco di ruolo (che può essere sviluppato anche su diverse lezioni con ricerche a casa, ecc) aiuta i ragazzi a capire che non tutti la pensano come loro, cerca di fare in modo di aiutarli a rispettare le idee degli altri senza per forza esserne d’accordo e li aiuta a farsi un’idea del tema di stretta attualità (obiettivo didattico della lezione).
Devo dire che è venuta fuori una bellissima lezione.

giovedì 26 luglio 2012

Games for a Change - Il gioco come mezzo per trasmettere lezioni storiche e morali


(Citando GIOCHI SUL NOSTRO TAVOLO, un blog sui giochi “intelligenti” che trovate  a 
http://pinco11.blogspot.it/2012/05/games-for-change-il-gioco-come-mezzo.html
Parliamo di un intervento di Brenda Brathwaite in una conferenza del TED nella quale parla di un percorso che sta seguendo per usare meccaniche del gioco da tavolo orientate a trasmettere lezioni morali o storiche in modo efficace...
http://www.youtube.com/watch?v=y9Z-3mz3j6U&feature=player_embedded

 Brenda è una game designer americana, con molti anni di carriera alle spalle (nata nel 1966 è dentro l'industria ludica come game designer sin dal 1981): anche se la sua passione ludica è ad ampio spettro le sue esperienza sono soprattutto nel game design videoludico, ed è stata la mente di tutta la linea Wizardry (un gioco di ruolo per computer che ha dato alla luce numerosi capitoli, lultimo dei quali nel 2001 le è valso ben 11 premi). Nell'ultimo decennio si è data all'insegnamento e tiene corsi di game design in numerose università americane, e ha lanciato un progetto chiamato "the mechanic os the message" dedicato appunto all'uso del boardgame tradizionale come strumento di apprendimento.

Ovviamente il video è in inglese e la Brenda parla un inglese ben scandito ma parecchio veloce: per chi fatica d orecchio è possibile attivare la sottotitolatura automatica 

Per chi fosse ancora più pigro ecco la sintesi:
Dopo una premessa ad ampio respiro sul rapporto gioco/emozioni racconta di cosa l'ha spinta a provare questo approccio educativo al gioco da tavolo... sostanzialmente sua figlia tornò un giorno da scuola a 8 anni raccontando che le avevano spiegato la tratta degli schiavi (Middle Passage in inglese), ma Brenda si rese conto che la cosa era stata appresa in modo distaccato (prendevano le persone in africa, le portavan con le navi, qui eran schiavi poi arriva Lincoln e son tutti liberi) come se fosse una crociera (beh, una crociera con una compagnia non italiana, visti i tempi).
Allora Brenda inventa un piccolo e semplice gioco: prende una scatola di omarini da boardgame grandi e piccoli e glieli fa dipingerein diversi colori creando delle famiglie (ogni colore ovviamente ne ha 2 grandi e alcuni piccoli) e li carica su una nave. La meccanica è ovviamente ridicola e inventata al volo (la nave parte con 30 unità di cibo e viaggia per 10 turni, ogni turno si tira un dado e si consuma quel cibo, per ogni cibo che manca si perde un omino) ma quello cohe conta è che giocando la bimba è costretta a scartare omini di cui ha una immagine emozionale, spezzando famiglie e perdendo persone... in questo modo personalizza l'evento storico (e ne resta anche un pelino traumatizzata). Presenta poi in coda il progetto nato da questa esperienza, che ha portato ad una serie di giochi che sono un mix tra prova di design ed estetica, finalizzati alla trasmissione/apprendimento di un messaggio.



mercoledì 18 luglio 2012

Nietzsche, La gaia scienza e la metafora in gioco

Segnalato da Donatella Boccalari, che ringrazio




Si può prendere sul serio il gioco? Se sì, che senso ha parlare del gioco come metafora: metafora della vita, in tutte le tonalità che colorano la commedia umana, ma ancor di più come metafora del mondo, anzi dei mondi che di volta in volta qualcuno ha ipotizzato, ha tentato di svelare, si è illuso di avere compreso? Ad ognuno il suo mondo e quindi il suo gioco? O il gioco, come d’altra parte il mondo, è uno solo? Chi stabilisce le regole del gioco? Chi è giocatore e chi spettatore?
L’elenco dei quesiti pecca per difetto, ma basta rileggere l’introduzione di Eugen Fink, a Il gioco come simbolo del mondo, per ripercorrere le perplessità che accompagnano una qualsiasi riflessione sul gioco. Alla fine, in Fink, il gioco diventa simbolo del suo mondo, dimostrando, innanzitutto, che il gioco possa essere preso sul serio.
In effetti il gioco ha conquistato il suo diritto di cittadinanza all’interno della cittadella teoretica già dai tempi di Eraclito che in più di un frammento usa il termine gioco: “il fanciullo cosmico giocando con le tessere colorate, crea mondi” e ancora “il corso del mondo è un bambino che gioca ai dadi”. Ilgiocare-creare equivale, in questo caso, a decidere le regole del gioco? Oppure che cosa significa creare con il gioco? Di fatto chi stabilisce le regole, nel nostro orizzonte più prossimo il legislatore, è colui che attraverso la legge crea una società piuttosto che un’altra; una democrazia, per esempio, piuttosto che una monarchia, un mondo, quindi, piuttosto che un altro. Ma alla fine il gioco non sarebbe altro che una metafora, calzante e soddisfacente più di molte altre, ma niente più che una fortunata metafora che ha resistito nel tempo. Eppure Eraclito ci mette in guardia perché il gioco del suo fanciullo è un gioco creatore.
Allora cosa significa gioco? Manca una definizione univoca perché il gioco in quanto termine, concetto, esperienza e fenomeno, non trova un contenitore in grado di avvolgerlo senza lasciare scoperta nessuna zona. Tra chi ha navigato tra le pieghe del gioco, tentando di coglierne gli aspetti non familiari ed immediati, e quindi impegnandosi per formulare una definizione, ci sono Huizinga (Homo ludens 1973) e Caillois (I giochi e gli uomini 1981). Per il primo "ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco. (…) Gioco non è la vita 'ordinaria' o 'vera', è un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria, già il bambino sa perfettamente di 'fare solo per finta', di 'fare solo per scherzo". Ancora: "Il gioco è qualche cosa di disinteressato, è un intermezzo della vita quotidiana, una ricreazione". E poi: "il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata; (…) il gioco comincia e ad un certo momento è finito". Infine "Ogni gioco ha le sue regole. (…) Il giocatore che si oppone alle regole o vi si sottrae è un guastafeste. Il guastafeste è tutt'altra cosa che il baro: quest'ultimo finge di giocare il gioco".
Ne I giochi e gli uomini Caillois aggiunge che il gioco è un'attività "incerta: il cui svolgimento non può essere determinato né il risultato acquisito preliminarmente”. E alla modalità della competizione, già introdotta da Huizinga, aggiunge l'azzardo, la maschera e la vertigine.
Eppure, entrambi gli studi, nonostante le caratteristiche del gioco messe a nudo, non approdano ad una definizione univoca ed inequivocabile. Il gioco sfugge a qualsiasi intento classificatorio, dunque, perchè nel gioco i concetti oscillano tra identità e contrario (libertà-necessità, utilità-gratuità, lavoro-ozio, realtà-finzione) . Il gioco innesca la sua carica esplosiva prima di tutto su se stesso, facendo saltare qualsiasi definizione. Del gioco si possono, soltanto, descrivere alcune premesse e alcune conseguenze. Insomma il gioco irrompe scalzando di continuo ogni lavoro di definizione. Ed è proprio grazie a questa sua potenza destabilizzante che, talvolta, il gioco è stato pensato, e ad esempio assunto da Nietzsche, come chance per un pensiero non metafisico.
Il gioco è, intuitivamente, continua invenzione, finzione, o addirittura imitazione, e nel suo essere costantemente un come se, il gioco illude di assumere i contorni di una sorta di mimesis, che al contrario della copia platonica, può nascere e sopravvivere indipendentemente da un archetipo. In questa assoluta autonomia e indipendenza il gioco comincia a svelare quella forza che lo sottrae ad una conoscenza “perfetta” e lo rende molto più di una metafora.
Pensiamo al pais eracliteo: nel suo giocare-creare, il fanciullo confonde i propri contorni con quelli di un demiurgo inconsapevole che si abbandona alla necessità di ciò che lo avvolge, ovvero alle regole di quel gioco entro il quale egli stesso si muove. L’interazione tra il fanciullo e il corso del mondo è dato da quella consonanza che deriva dall’appartenere ad uno stesso orizzonte, quello del gioco appunto, che impone prospettive diverse. Perché il gioco evoca l’idea di una totalità chiusa in se stessa, con le sue regole non determinate da nulla di esterno al gioco, né aventi alcuna finalità pratica. Il gioco è un fare non serio, un fare come s,e che svincola l’uomo dalla pesantezza della vita reale. E’ leggerezza, gioia, spensieratezza ed è assoluta libertà della creazione, intesa non in senso cristiano, ma come pagano poiein, incarnato dal fanciullo di Eraclito e riproposto, seppur con confini diversi da Nietzsche, che non si pone il problema della natura del gioco, ne parla come di un “istinto al pari del tratto fanciullesco”, o come di “un sintomo  della forza che caratterizza la psicologia dell’artista”, di colui che crea, quindi, di colui che produce, che fa
Questa potenza creatrice del gioco, fa del gioco il gesto dissacrante dello spirito libero. “Un altro ideale – scrive Nietzsche nell’aforisma 382 de La gaia scienza – ci precede correndo, un prodigioso ideale, tentatore, ricco di pericoli, al quale non vorremmo convincere nessuno poiché non è così facile riconoscere a qualcuno il diritto ad esso: l’ideale di uno spirito che ingenuamente , cioè suo malgrado e per esuberante pienezza e possanza giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono, intangibile, divino”. Giocare significa mettere in gioco, in discussione la costruzione assiologica entro la quale ci muoviamo. Chi gioca? Non il soggetto, ma il giocatore, che nel panorama nietzscheano è colui che si incammina lungo il sentiero che conduce alla trasmutazione dei valori, colui che non teme di fornire il proprio contributo perché questa rivoluzione si compia. Il gioco rappresenta la modalità idonea per portare a termine questo cambiamento, non in quanto metafora del mondo, ma in quanto esso stesso ritmo, movimento della struttura del mondo, perché il gioco, scrive Nietzsche, privilegia l’inutilità e la transitorietà, è l’ideale da contrapporre a quanti interpretano l’esistenza secondo schemi razionali e finalistici. Il gioco, senza correre il rischio di sostanzializzarsi, è esattamente la modalità in cui il mondo si dà all’uomo, perché il mondo è gioco e l’uomo è dentro questo gioco, appartiene al gioco. Il gioco spaventa, perché nel gioco c’è un solo vincitore, tutti gli altri perdono, per loro la rivincita della morale cristiana in un al di là che non rende immuni, ma consola, dalle sconfitte della vita mondana. Eppure non è possibile sottrarsi al gioco, nessuno può alzarsi dal tavolo verde (notare l’accezione del gioco per definizione come azzardo ndr) e restare a guardare, perché il gioco costitutivamente è presente nell’uomo come nel mondo. E l’eroe pre-tragico, pre-socratico, sapeva giocare. Dioniso maestro di gioco, impavido, accetta la carta che neanche pesca ma gli viene distribuita, e interprete genuino dell’amor fati perduto la fa propria. L’uomo odierno ha smarrito l’attitudine al gioco, in una sorta di epochè ha smarrito quell’intenzionalità che lo rendeva istintivamente giocatore per paura di perdere. “Quanta verità può sopportare un uomo? Quanta verità può osare un uomo?” Si chiede Nietzsche. L’uomo, insomma, può sopravvivere alla consapevolezza di essere pedina di una scacchiera di cui non conosce le regole, che eppur ci sono ma non stabilite dai giocatori? No, risponde Nietzsche, recuperare la dimensione del gioco significa realizzare la metamorfosi che porta al super-uomo.
Per attuare questa mutazione è necessario comprendere che così come il gioco ha le sue regole ferree ma assolutamente arbitrarie, non determinate da nulla e assolutamente non finalizzate a nulla di esterno al gioco, il mondo come totalità non è causato né determinato da nulla. Allora, pensando il mondo come gioco, l’uomo pensa l’essere come senza-fondamento, come non necessitato da nulla e, al tempo stesso, fonte di ogni necessità. Non si tratta, dunque, di una “oggettivazione cosificante”, per dirla con Fink, ma dell’autocomprensione, da parte dell’uomo, del proprio essere e della propria libertà.
Dunque Nietzsche, ponendo il mondo sotto il segno del gioco, espone il mondo (e l’uomo) al nulla del fondamento, alla sua non-necessità e assoluta libertà di essere altrimenti o non essere affatto. Gli sviluppi di questa impostazione vanno collocati - in netta opposizione al pensiero della metafisica - sotto il segno del tragico, di un pensiero che ha al suo centro l’idea che l’essere sopporti la contraddizione, sottraendolo così al principio di ragione. Un pensiero in cui non c’è una verità che spieghi e che salvi, in cui non c’è fondamento e dunque neppure possibilità di trovare un senso ultimo delle cose. Un pensiero che, poggiando sul nulla, vede le cose nel loro essere effimere, mortali, non necessarie e le ama nella loro fragilità, nel ‘dono’ del loro esserci. Un pensiero, aggiungiamo, in linea con quello di Heidegger, che coglie il senso dell’essere nella sua infondatezza, nella sua libertà e gratuità, e per il quale la ‘domanda fondamentale’ non mira ad una risposta ma a mantenere l’ente nella possibilità del non essere.
Nietzscheanamente giocare significa porsi in una dimensione di nomadismo in cui il gioco è tale in quanto gioco, che trova in se stesso la ragione del proprio esserci e non nel fine che deve raggiungere. Non banalmente in questo caso l’importante è partecipare, perché partecipare qui equivale ad aver accettato una prospettiva in cui nessuna meta fagocita e frantuma il viaggio. Perché l’uomo – spiega Zarathustra – è una fune tesa tra la bestia e il superuomo. Farsi super-uomo vuol dire accettare di giocare senza mai intascare il premio, perché lo scopo del gioco è il gioco stesso.
In questo caso nel gioco si rintracciano quelle idee di libertà, di innocenza, di casualità proprie, secondo Nietzsche, del divenire del mondo.
La consapevolezza del gioco come “attività” priva di un fine che lo motivi o lo giustifichi, in realtà è proprio ciò che permette all’uomo di fissare scopi e obiettivi della propria vita, di continuare a creare valori, o più precisamente di ri-creare nuovi valori che nascono dalla riscoperta coappartenenza dell’uomo al mondo, pur avendo coscienza del loro non essere necessitati da un fine esterno e trascendente rispetto ad essa. E, allo stesso modo, avendo coscienza del fatto che essi non sono né potranno mai essere definitivi, perché la volontà di potenza che la vita è porta l’uomo ad un continuo movimento di autotrascendimento. L’uomo, dunque, può proseguire la propria avventura della conoscenza anche dopo aver sottratto a questo suo ricercare il tendere ad una meta ultima e definitivamente acquisita. Ci sono, sì, delle conquiste conoscitive intermedie presso cui è possibile ‘sostare’, ma non luoghi dove stabilirsi, perché il cammino della conoscenza è quel movimento incessante, nomade, che crea il gioco. L’uomo della conoscenza nietzscheano è il viandante che sosta per brevi periodi presso dei giudizi, dei sentimenti, delle considerazioni a cui la sua ricerca è approdata  che costituiscono dunque delle mete provvisorie – per poi fare di essi dei punti di partenza verso terre inesplorate. Raggiungere una meta definitiva, infatti, significherebbe la fine del viaggio, l’irrigidimento e l’assolutizzazione di un unico punto di vista. Inoltre, questo viaggio rimette continuamente in discussione anche il viaggiatore stesso, poiché il confrontarsi con nuove realtà e nuove percezioni delle cose comporta anche un viaggio dentro se stessi, verso ciò che in noi è ancora un mistero. Mettersi in viaggio è dunque anche e soprattutto un mettersi in gioco, un continuo andare ‘oltre se stessi’, affrontando il rischio della scomposizione e ricomposizione del proprio essere, delle proprie opinioni, dei propri gusti, dei propri affetti.
Il gioco di Nietzsche è un gioco di prospettive, di avvicinamenti e distanziamenti dalle cose, che ci permette di vedere ‘meglio’ la realtà, di comprenderla nel suo divenire molteplice ed incessante cambiamento, è consapevolezza dell’inesauribilità delle prospettive e dei significati.
Chi accetta di giocare, accetta anche il tempo del gioco: un tempo circolare, che gode della ripetizione. Il tempo del gioco è dissipabile, organizzabile in modo più libero, godibile. Ancora, nel gioco noi possiamo in ogni momento azzerare l’accaduto e ricominciare da capo, assumere una nuova identità, annullare il già successo attraverso l’interpretazione di nuovi ruoli, di nuove possibilità. L’eterno ritorno di Nietzsche cerca appunto di stabilire un diverso rapporto dell’uomo con il tempo sotto il segno della leggerezza, per cancellare il risentimento verso il ‘così fu’, verso il passato, e vincere lo ‘spirito di gravità’.
In tutto il nostro agire quotidiano, infatti, noi tendiamo ad un fine trascendente e giustifichiamo le nostre azioni in rapporto ad esso: così ogni attimo divora il senso di quello precedente, e il tempo della vita è vissuto in modo angoscioso. È quella che Vattimo chiama «temporalità estatico-funzionale», o «struttura edipica del tempo», in cui il presente è ‘strangolato’ tra passato e futuro e non vissuto pienamente. Il gioco ribalta questa disposizione, perchè nel gioco il tempo non ha nessun fine esterno che lo determini.
Così il fanciullo eracliteo non è altro che il dionisiaco nietzscheano che sa maneggiare i dadi, che ha dimestichezza coi dadi, che non ha paura di lanciarli perché è dentro il corso del mondo e non si muove alla ricerca di una postazione esterna privilegiata, che di fatto non può esistere perché il giocatore nasce col gioco, come l’uomo nasce col mondo, nel mondo. Il giocatore fuori dal gioco non esiste.
Il rischio che si annida in una speculazione che conquista una prospettiva del genere è che il gioco assuma tutte le caratteristiche della metafisica tradizionale, perdendo proprio le modalità di gioco e finendo per “sostanzializzarsi”. Perché il gioco conservi la propria natura occorre che il discorso sia posto nei termini che il gioco possa sempre essere messo in gioco, non in un infinito rimando, ma in una molteplicità di esplorazioni ermeneutiche che garantiscano la plurivocità del gioco stesso. 
Attenzione dunque alla metafora del gioco come simbolo del mondo, che a più livelli ripropone il medesimo inganno: facendo credere che qualcuno stabilisca le regole del gioco e la posta in palio. Dio e il Paradiso in una semplificazione ontologica, i governi e popoli in una traduzione pratica.
Ma se il gioco non è metafora, bensì modalità intellegibile del darsi del mondo all’uomo, in quanto l’uomo stesso nasce come tessera di questo immenso gioco cosmico, allora non ha senso cercare o credere che qualcuno piuttosto che qualcun atro stabilisca le regole. Le regole sono quelle del ritmo dell’orizzonte entro il quale ci muoviamo che non rispondono a nessuna logica finalistica ma accadono. Stare dentro il gioco significa non poter accettare che qualcuno si arroghi il diritto di dare le carte, perché gioco e giocatore sono parti di uno stesso tutto. 
Claudia Mazzola
Università degli studi di Perugia

lunedì 16 luglio 2012

Utilizzare il gioco nella formazione esperienziale e meditare sulle reazioni dei partecipanti che non sono, generalmente, dei giocatori.


Come dicono quelli saggi cominciamo dall’inizio, piazziamo quelli che sono i mattoni base rispetto a qualsiasi costruzione teorica: le definizioni.
Partendo da una delle molte possibili che identificano il concetto di gioco: insieme di regole che creano un contesto non reale da condividere con altri utilizzatori delle stesse regole.
Come a dire che un gioco è definito più dalle regole astratte che lo strutturano, e da chi le usa, piuttosto che dal materiale concreto di caselle, dadi, pedine e scatole.
Dall’altra parte, una delle possibili definizioni del concetto di formazione esperienziale recita: attività didattica che usa un contesto di solito metaforico in cui le persone sperimentano le proprie competenze e capacità, al fine di prenderne consapevolezza e trasferire poi le possibili implementazioni in àmbito reale.
Cioè: la formazione esperienziale è quel modo di fare didattica in cui si fa sperimentare un’attività (di solito in modo “non reale”) per fare meglio capire e memorizzare le teorie che dovrebbero regolarla.
Se teniamo buone queste definizioni notiamo alcuni elementi sorprendentemente coincidenti: attraverso il gioco si può fare un’esperienza entrando in un contesto non reale (col vantaggio quindi che tutto possa succedere senza danni fisici o economici per le persone), organizzato da regole condivise con altri, tecniche e relazionali, esattamente come di solito succede anche fuor di metafora nella vita reale.
Non a caso fin dalla notte dei tempi uno degli obiettivi del gioco infantile è quello di imparare le cose che si dovranno poi applicare da grandi: caccia, guerra, allevamento dei piccoli, e così via. O di ricordare alcune norme in modo più facile perché stimolate nella memoria dal divertimento.
Possiamo quindi azzardarci a dire che giocando si può imparare (su questo concetto Clementoni col suo Sapientino© ci ha fatto miliardi di vecchie lire e migliaia di nuovi euri) e su questo probabilmente non discute nessuno.
Tuttavia -già che ci siamo proviamo ad approfondire un po’ il discorso- questa affermazione viene recepita quasi sempre in tema di apprendimento simulativo: imparo a scrivere collegando le lettere con gli animali, gioco al pilota usando il joystick di un fly simulator, gioco al medico praticando l’Allegro chirurgo, gioco al manager praticando i business game…
Cioè uso il gioco come campo astratto di pratica in cui imparo diciamo così gli aspetti hard di un certo lavoro(la manualità dei chirurgo, il controllo del cockpit di un aereo…), evitando il rischio di un fallimento aziendale o lo schianto contro la collina di Superga.
Esiste tuttavia un altro uso didattico del gioco, collegabile in modo meno evidente ma forse ancora più intrigante alla crescita di una persona: quello dell’analisi e dell’implementazione delle competenze e capacità soft, quelle non legate al saper fare ma al saper essere, quelle ad esempio connesse alla comunicazione, alla capacità di prendere decisioni, al sapersi relazionare con uno o più altri, al vincere e perdere e così via. Competenze trasversali utili in tutti i campi e non necessariamente connesse a qualche attività specifica come la metallurgia o il volo transoceanico, e tuttavia spesso incredibilmente  sottovalutate in ambito scolastico o aziendale.
Qui lo strumento gioco viene sviluppato indipendentemente dalla metafora di cui si veste, che resta importante solo come motore di divertimento, focalizzando l’attenzione educativa sulla parte di gestione delle regole e delle relazioni.
Anche senza andare alla ricerca di giochi appositamente progettati a questo scopo (ce ne sono diversi, non tutti i giochi si prestano ad analizzare o sottolineare le stesse competenze) proviamo a vedere concretamente come possono funzionare –formativamente parlando-anche i giochi cosiddetti “comuni”.
Gli scacchi ad esempio, come ogni altro gioco astratto praticabile in modalità torneo-cronometro, sono un campo di prova ideale per misurare i livelli di visione strategica e capacità di prendere decisioni sotto lo stress del tempo.
Diplomacy è -per definizione si potrebbe dire- un ottimo strumento di valutazione delle capacità negoziali dei giocatori/discenti. Il vecchio Can’Stop è (era -purtroppo non se ne trovano più tante copie) ottimo per lavorare sulle capacità di prendersi dei rischi, così come quasi tutti i giochi in cui si usano più dadi e più calcoli di probabilità.
Se in una sessione formativa distribuiamo solo un po’ del nostro sapere circa le competenze di negoziazione teorizzate dalla scuola di Palo Alto, gli “alunni” memorizzeranno solo una parte delle informazioni passate. Se invece cominciamo a fare giocare il gruppo, diciamo ad esempio a Coloni di Catan, a un certo punto li fermiamo per informarli su cosa dicono Fischer&Uri a proposito della negoziazione efficace win win, e poi facciamo ripartire il gioco sollecitando l’attenzione alle modalità di applicazione delle informazioni esposte, forse finiremo la “lezione” con una consapevolezza maggiore di: quanto serve prestare attenzione all’altro, come usare meglio la comunicazione per spiegare le proprie esigenze, come si arriva ad un risultato migliore per entrambi…
Nell’utilizzare questi elementi-gioco in un contesto formativo occorre tuttavia fare attenzione ad alcuni aspetti non sempre evidenti: la conoscenza delle regole, l’importanza del vincere o perdere, il rapporto dei partecipanti col concetto di gioco.
1)          Il tempo-aula da dedicare a queste attività è sempre molto ristretto (in teoria la parte esperienziale del tutto non dovrebbe superare il 30/50% del tempo globale di docenza), quindi doverne stanziare troppo per imparare delle regole che nessuno conosce potrebbe diventare distonico rispetto all’economia temporale globale. Considerando poi che quasi sempre le regole sono “difficili” da capire, soprattutto da parte di alcuni soggetti mentalmente meno strutturati (come chi scrive, ad esempio).
Quindi, a meno che non si voglia utilizzare proprio questo elemento come ulteriore sttrumento di analisi (quanto ci metto a capire una regola, cosa mi dà fastidio/stress/angoscia nel leggere le regole, quanto è più facile studiare regole in gruppo ecc.) è consigliabile proporre giochi che quasi tutti conoscono (l’ipotesi che tutti le conoscano riduce di molto la gamma dei giochi fra cui scegliere).
D’altra parte anche la diversa conoscenza degli strumenti di attività da parte di elementi di uno stesso gruppo potrebbe essere un bell’elemento di meditazione e formazione: anche nel lavoro quasi mai tutti i membri di un team conoscono le “regole” del progetto allo stesso modo. E questa conoscenza determina spesso meccanismi di dinamiche interne, creazione di leadership e così via utilissime da esaminare in aula.

2)          Checché se ne dica, il concetto di gioco si collega a quello di sport, con la conseguenza inevitabile che i partecipanti recepiscono l’esercizio come qualcosa in cui è importante, se non essenziale, vincere e di conseguenza inevitabile fare perdere. A volte – molto spesso- il piacere di questo risultato tende a prevaricare l’obiettivo reale della sessione formativa, cioè imparare qualcosa di se stessi e migliorare. Sarà quindi cura del docente che usa questo strumento come elemento esperienziale tenere sotto controllo il furore agonistico (come dice sacchi) dei giocatori, magari sottolineando come questo possa agire da eustress per portare a risultati migliori o anche peggiori, se non la si tiene sotto controllo. Certo è che quando si usa il gioco, in alcuni ambiti come ad esempio quello di negoziazione  efficace orientata alla soddisfazione di entrambi i contendenti, è difficilissimo fare superare alle persone il concetto di “io vinco se tu perdi” celebrato da ogni attività sportiva. Quando si arriva al debriefing, cioè la considerazione finale su come si è agito, qualcuno che dice: “ma era un gioco, era ovvio che l’obiettivo era quello di far perdere l’altro”, lo si trova sempre.

3)          Non tutti apprezzano, e non tutti nella stessa misura, il concetto stesso di gioco. Quando si lavora in aula formativa non si è in una ludoteca, le persone che si hanno davanti spesso non sono venute di loro spontanea volontà, quasi mai sono venute per giocare, magari hanno una serie importante di problemi per cui l’idea stessa di gioco risulta loro estranea quando non fastidiosa. Comunque –e giustamente- rifiutano l’ipotesi di poter essere giudicate a livello lavorativo tramite una simulazione molto metaforica quale è il gioco un ogni caso. È quindi fondamentale trasmettere da subito la comprensione e liceità di queste resistenze, e il patto di non valutazione se non attraverso forme di autoanalisi (sarete voi che deciderete se e quanto cambiare per essere migliori, non un assessor o l’azienda)
Anche il modello di gioco non è accettato da tutti allo stesso modo: facendo una distinzione per generi ad esempio ai maschi andrà più a genio una metafora ludica di tipo bellico-scontro rituale, per le donne sarà più consono l’ambito induttivo psicologico.
Per superare queste resistenze è quindi in ogni caso importante tenere un po’ sotto traccia la parte esperienziale e molto più in luce quella di crescita formativa, spiegare bene le modalità e gli obiettivi, stimolare le persone ad usare magari proprio quelle resistenze che l’uscire dalla zona di confort fa venire fuori.

Detto ciò e fatta attenzione a questi elementi, usare il gioco in aula formativa è senza dubbio una delle esperienze più arricchenti che si possano sperimentare, sia a livello di competenze hard che soft.
E questo detto da uno che usa il gioco da quarant’anni in ogni ambito, ma che allo stesso tempo -avendo un livello di sopportazione della conflittualità bassissimo- non ama giocare, credo sia davvero illuminante.

domenica 8 luglio 2012

Il favoloso mondo di Amélie


Ho visto (anzi rivisto, credo per la decima volta) Il favoloso mondo della bellissima Audrey Tautou-Amélie (Le fabuleux destin d'Amélie Poulain), scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet. Oltre a godermi il sogno continuo e garbato che solo i francesi -quando vogliono e sanno- possono descrivere, ho anche pensato come la comunicazione fra Amèlie e il suo uomo-tormento sia una specie di caccia al tesoro parigina supersofisticata. Un gioco, anche se non credo nessuno abbia mai descritto questo film come un film-game. Quanti sono i film in cui un gioco o il gioco compare da protagonista occulto, al di là di quelli dal titolo declaratorio tipo The Game o Scopone Scientifico, o in cui  è evidentemente protagonista come Quintet o Jumanji? 
Non sarebbe carino, per noi che ci piace acculturare un po' il gioco, trovarne un po' e farne un elenco?  
Fra l'altro (per la seconda parte di titolo di questo blog), questo archivio potrebbe essere un bello spunto per inserire degli spezzoni nelle noiose serate d'aula, magari su comunicazione o organizzazione del lavoro: qui Amélie é perfetta, per come lavora col non verbale, per come struttura il percorso e i tempi della connessione con Nino, per come sviluppa soluzioni creative ai problemi  dei suoi vicini che non li conoscono ancora, per come crea valore nel bar in cui lavora gestendo le relazioni, per come gestisce la serendipity della vita...
Insomma una piccola miniera di spunti visivi e meditativi da sostituire al basta-non-ne-possiamo-più dei vari Ogni maledetta domenica o L'attimo fuggente.
Dai, aspetto commenti

sabato 7 luglio 2012

Lo sport è sempre educativo?

Ho già scritto di questo mio pallino in FB, ma lo riprendo qui, che mi pare anche il posto più adatto: il problema dello sport- se lo si inquadra come metafora di vita- è che non prevede vittoria senza sconfitta. E spesso, come nei tornei internazionali, sconfitta di tantissimi contro vittoria di uno solo. Usandolo come riferimento lavorativo, ad esempio, si insegna che nella vita il pareggio è una sconfitta mentre una saggia visione del conflitto dovrebbe incentivare proprio questa soluzione come la migliore possibile.
In questo senso credo davvero che lo sport sia diseducativo.

giovedì 5 luglio 2012

Se avete scritto qualcosa al riguardo, indicatelo qui
Comincio io coi miei primi tre titoli


Editrice Dante Alighieri - Met@forming  
uso della metafora nella formazione e sua costruzione funzionale
Editrice Dante Alighieri - Le donne i cavallier l'armi e i lavori meditazioni sulle relazioni lavorative fra donne prendendo spunto da come giocano
Editrice La Meridiana - Keiron - L'uso del gioco nella didattica e nella formazione
Un testo scritto a sedici mani sulle esperienze di ludoformatori a tutto tondo (docenti, progettisti, insegnanti ecc. ma soprattutto giocatori e sperimentatori)