giovedì 27 dicembre 2012

UN AMERICANO A ROMA , MA ANCHE A MILANO


Ricordate il mitico Sordi degli anni ’60? Quello impallinato del modello americano? (http://www.youtube.com/watch?v=N8WuLcncbBM)
Beh sembra che dopo 50 anni non sia cambiato di molto il mito dell’anglofonìa.
Ok, voglio dichiarare un fermo endorsement (dare appoggio), alla possibilità di parlare –almeno in  aule di formazione- un po’ meno inglese e un po’ più italiano. Non che mi voglia riportare all’uso del ventennio in cui si traduceva ogni termine straniero in italianissime forme idiomatiche, ma anche questo modo, vezzo e passione dei consulenti di parlare inglese dovrebbe trovare un limite.
Se in ambito tecnico ormai alcune parole tendono ormai all’inevitabile -accendere come gli spagnoli un ordinatore al posto di un computer farebbe un po’ esagerato, maneggiare un topo al posto di un mouse farebbe un po’ schifo- certi dialoghi fra consulenti si potrebbero davvero evitare.
“Ho organizzato un meeting (incontro) tramite conference call (telefonata) per tutto il board (vertice) di un key client (importante cliente), a cui ho fatto partecipare il CEO (pr. sìo, direttore generale) con tutto il suo team (squadra) per dare il massimo del committment (importanza) sia alla vision (visione) che alla mission (missione) che sarebbero uscite da un briefing (discussione e analisi) fondato sul brain stroming (parlare a ruota libera) al fine di strutturare una migliore governance (indicazione direttiva) per tutta l’azienda.”
Oppure: “occorre sviluppare team building (creare un gruppo) attraverso una knolwledge sharing (scambio di conoscenze) che sia alla base del team working (lavorare in gruppo) orientato ad un efficace change management (gestione del cambiamento) che tenga presenti, in ottica di empowerment (potenziamento), sia il time management (organizzazione del tempo) che lo sviluppo dei tools (strumenti) base più importanti, quali ad esempio la leadership (capacità di guida) linkata (collegata) ai più efficienti mezzi di people care (attenzione alle persone).”
Se necessario per il debriefing (tirare le conclusioni) possiamo usare slide (proiezioni) o anche le sempre valide flip chart (lavagne a fogli).

Va bene che ogni categoria ha il suo slang (linguaggio settoriale) che le permette di fare riconoscere fra loro i componenti del clan (gruppo), e che senza un certo imprinting (caratteristica)  i coach, i mentor, i tutor e i councellor (questi non li traduco singolarmente perché è davvero sottile la distinzione ufficiale fra loro, anche se potremmo chiamarli un po’ tutti facilitatori) non si darebbero il peso che si danno. Ma quando è troppo è troppo.

Così quando in aula incontro persone che mi chiedono di non parlare troppo consulentese, io propongo, per aiutare in questo senso sia me che gli altri relatori, un gioco molto simile alla tombola: al posto delle cartelle si distribuiscono dei foglietti -come quello a sinistra- su cui sono distribuite alla rinfusa una decina fra i termini inglesi diversi da cartella a cartella. Durante i lavori le persone cancellano dalle loro cartelle i termini usati  e vince il primo che fa “lotto!” (che corrisponde appunto alla tombola, ma fa molto più figo). Risultato: la maggior parte dei relatori pronuncia il 50% in mano di termini inglesi, e la platea capisce almeno il 50% in più di quello che i relatori dicono.
A meno che la platea non sia fatta di consulenti, che allora criticano il relatore perché parla come mangia….

lunedì 24 dicembre 2012

Ci siamo, anche quest'anno Natale cade di 25


Ecco: come tutti gli anni si arriva al 25 dicembre e quasi fosse calcolato arriva anche Natale… Anzi, dirò di più, in allegato alla fatidica data si scopre che arrivano anche gli inevitabili  eventi  aziendali, amicali, parentali e via festeggiando. E spesso l’inevitabile tombola.
Amata o odiata, la tombola ci si ripropone fin dal ‘600 (pare che i 90 numeri fossero legati alle scommesse che facevano i genovesi sugli eleggibili nei Serenissimi Collegi - Senato e Camera - della repubblica di San Giorgio). E si presenta con tutti i suoi riti e tutte le sue caratterizzazioni, come sottolineato meravigliosamente in un passaggio dell’ultimo film di Paolo Genovese che vi consiglio di sbirciare in http://trailer-film.35mm.it/una-famiglia-perfetta-2012/una-famiglia-perfetta-le-regole-della-tombola-29900.html.

Essendo quindi la Vigilia, e stante il fatto che scrivo in un blog semiserio/semiprofessionale, mi ha punto vaghezza di esplicitare come la tombola potrebbe essere usata o almeno considerata strumento di formazione esperienziale, anche in occasioni non strettamente christmassiane.
Magari anche si, però tenendo presente che questo gioco ha uno svantaggio e un vantaggio: il primo che è vissuto come roba vecchia, il secondo che non si deve spendere nemmeno un secondo per spiegarlo, dato che tutti sanno come funziona. C’è poi un terzo punto da considerare: è basato praticamente solo e soltanto sulla fortuna. Quindi non ci troverete presa di decisione, visione strategica; neanche l’analisi di rischio-beneficio, data l’impossibilità di lavorare su probabilità accettabili.
Tuttavia c’è uno spazio in cui l’ho usata, e anche molto efficacemente: quello della facilitazione della conoscenza all’interno dei membri del gruppo (sarebbe la fase di forming canonizzata da Bruce Tuckman).
Basta disegnare delle cartelle cieche, cioè senza numeri, come quella che trovate qui accanto allegata (magari meglio farne una decina diverse fra loro), e darne una per squadra, invitando i giocatori (suddivisi per team da fare amalgamare) a scrivere al loro interno i numeri che i membri del team ritengono fortunati per loro.
Risultato garantito: cominceranno a raccontarsi la loro vita, avventure, parentele, cursus scolastico ed honorum per giustificare la scelta. Io ci metto il 27, perché da giovane seguivo sempre la Ferrari (“anch’io, mi ricordo un bellissimo Montecarlo del ’72), io ci metto il 12 data del mio matrimonio (“anche io mi sono sposata a giugno, faceva in caldo…”), io il 30, data della mia separazione (“ma vah, ti sei separata anche tu? ma quanti ne siamo…”) e così via….
Qualche scettico dirà: c’è la probabilità che escano due cartelle uguali… Infinitesimale, quasi come quella di fare un superenalotto.
E poi se anche capitasse qualche ambo uguale, che problema c’è? Tanto è un gioco strutturato per fare conoscere sconosciuti. E il bello è che lo si può fare in quanti si vuole (io l’ho provato su una popolazione di 260 persone…)

PS – se temete che fra i giocatori ci sia qualche assatanato per la vittoria, che potrebbe barare scrivendo i numeri mano a mano che escono, date insieme alla cartella un pennarello di colore improbabile quale il fuxia o l’arancio aragosta, che nessuno si suppone porti a una cena di Natale o aziendale, e ritirateli prima di cominciare a tirare i numeri.

PPS - BUONE FESTE A TUTTI, CON O SENZA TOMBOLE!

venerdì 7 dicembre 2012

ATTENZIONE! BANDITI A 500 METRI (dalle scuole)


L’importanza della componente di alea (fortuna) in un gioco è stata canonizzata da Roger Caillois. Se non sapete chi era costui avete due possibilità: smettere di leggere questo tipo di blog o farvi finalmente una seria cultura  sul gioco come attività intellettuale leggendo per cominciare il suo masterpiece I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine – Bompiani tascabili, meno di 10 euri. 
Nell’ambito delle metafore ludiche formative questa componente di imprevedibilità (c’è anche chi dice che la sorte non esista ma sia lo pseudonimo di Dio quando non vuole comparire in prima persona) viene usata per mettere a fuoco tutte le casistiche legate a presa di decisione, assunzione di rischio, analisi delle probabilità e via contando. E può essere sfruttata molto efficacemente per aiutare le persone ad analizzare in contesto, ad esempio, di empowerment quanto sono capaci nei suddetti ambiti. 

Io nei miei giochi formativi tendo ad inserirla molto limitatamente, e sempre avvisando, come in alcuni role playing, che una determinata situazione prevede un successo col tot % delle probabilità. Così per esempio se qualcuno dichiara che vuole passare su una passerella apparentemente un po’ fradicia saprà che, lanciando il dado da 6, con 1 o 2 precipiterà di sotto. Di conseguenza potrà decidere se correre il rischio o no, se possibile in base all’aver guardato cosa c’è sotto (coccodrilli? 200 metri di strapiombo? un materasso abbandonato?); se esistono vie alternative per passare comunque oltre; se il rischio vale il risultato (vuole solo vedere se regge? c’è un tesoro dall’altra parte?  vuol farsi bello davanti alla collega compagna di gioco?).
E soprattutto poi in debriefing considerare se e come ha preso in carico questi elementi.

Per quanto ne so questo del warning-prima è un uso che rende l’inserimento del dado un po’ meno ludico di quanto risulti nei veri e canonici giochi di ruolo, ma più orientato all’aspetto formativo della cosa.
L’attenzione a tale rischio consapevole, se proposto in questa chiave, disvelato con le dovute maniere e collimato con le usuali attitudini-tendenze dello stesso comportamento anche nel mondo del lavoro reale, può aiutare di molto il partecipante alla formazione nel prendere consapevolezza dei suoi comportamenti tipici, della loro efficacia lavorativa, e delle possibilità di assumerne diversi in occasioni-obiettivi differenti.

Uso consapevole: proprio l’obiettivo che si pongono le pubblicità di grattaevinci, slot machine e sale giochi quando, dopo aver conclamato quanto è bello e forte e innocente giocare coi banditi a un braccio solo (le slot machine) , aggiungono: gioca consapevolmente….

D’altra parte anche il governo ha da dire la sua in questo senso.
Citando direttamente uno degli ultimi Wired on line, “dopo appena una settimana dalle dichiarazioni del direttore generale dei Monpoli di Stato  Luigi Magistro sul progetto di ripianificazione della distribuzione delle macchine da gioco sul territorio italiano, ecco che il gioco stesso entra direttamente nelle nostre case. Da lunedì scorso, infatti, è in vigore la legge, formulata due anni fa, che implica la messa online di un cospicuo numero (superiore al migliaio) di sistemi per scommettere online, direttamente dal proprio computer, inserendo solamente il proprio codice fiscale e, naturalmente, un numero di  carta di credito.”
Così le slot spostate a più di 500 metri dalle scuole e ospedali (cosa c’entrano gli ospedali poi?) entrano direttamente in casa di qualsiasi studente o malato.
Ma si vede che il Balduzzi avrà fatto anche lui un corso metaforico formativo sulla presa di decisione, e avrà calcolato che le entrate per il fisco valgono il rischio di migliaia di dipendenti (molto spesso molto adulti) rovinati dal gioco on line…

martedì 4 dicembre 2012

Il gioco dei troni internettiani


Questa è troppo carina per passarla sotto silenzio, anche se forse un po’ border rispetto ai nostri temi usuali. O forse no, se vi andate a rileggere il post su contenuti e contenenti.
Ripreso da Wired attraverso un articolo di Raffaele Mastolonardo (cognome che trovo adattissimo al tema)  leggo che L’Economist pubblica un servizio sulla battaglia tra Facebook, Google, Microsoft, Apple e Amazon appena iniziata. E lo fa tramite la proposta della metafora di un gioco molto risikoso, con una cartina che vi riproduco perché è davvero troppo bella. Come si nota, Appleachia confina, ad Est, con Google Earth, la quale, a Nord, si tocca con Amazonia. In mezzo, separata dagli altri regni da una serie di colline e montagne, c'è la fortezza di Facebook. Nell'estremo Nord Est, intanto, oltre il Mare dei Contenuti, l'Impero dei Microserfs, un tempo potentissimo, punta alla rivincita.
Il tutto si ispira al ciclo di libri Game of Thrones scritta da George R.R. Martin, che descrive un mondo senza più sovrano unico ma con una moltiplicazione (deleteria per le caotiche conseguenze dinastiche) di tantissimi re. Praticamente, per inciso, un inno al monopolio, ma questa è un’altra storia.
Quello dell’Economist risalta come un altro “ Gioco di troni”, reale e digitale, in cui forse non ci sono draghi e lupi ma assedi e incursioni sì, e in cui la pace non sembra una prospettiva contemplata dai contendenti. Scrive Mastrolonardo che “nel gioco di metafore del quotidiano britannico le piattaforme diventano armi con cui le fazioni in battaglia cercano di governare le proprie terre e di conquistarne di nuove, e i brevetti quelle con cui provano direttamente a far male ai rivali”. Insomma, un rumore di fondo creato nel Web che rimbomba assomigliando sempre di più al clangore di spade.
Il tutto mi pare un ottimo esempio per sottolineare l’efficacia descrittiva rispetto ad una pur molto complessa situazione economicao finanziaria da parte della metafora-gioco.
L’impiego di wargames per simulare mercati e scontri anche intra aziendali è fra l’altro una delle metafore che più facilmente escono quando in aula di formazione si chiede di inventare un gioco che rappresenti la propria azienda, soprattutto quando la popolazione dei partecipanti è costituita in maggioranza da maschi.
Che si sia d’accordo o meno su questa immagine bellica del mercato e del lavoro, è innegabile in ogni caso che l’applicazione della metafora paramilitare (storica o attuale) permette di creare una SWOT Analysis in molto efficace e immediato, su cui fare lavorare poi in sede di debriefing i partecipanti ai corsi. Per i pochi che non conoscono lo strumento della SWOT vi cito una (secondo me)  buona presentazione nel sito Mind Tools http://www.mindtools.com/pages/article/newTMC_05.htm)

venerdì 30 novembre 2012

LEGO CONNECTION


Già altrove ho scritto dell’uso del mattoncino colorato nella formazione. Oggi riprendo l’argomento stimolato dalla curiosa connessione con cui i maggiori organi di stampa italiani (online) lo citano proprio a proposito delle didattica, per certi aspetti in modi opposti.  Sul Corrierone di due giorni fa è uscita la notizia che i sostenitori di Centopercentoanimalisti chiedono la confisca e il ritiro delle confezioni Lego circo e Lego zoo con la motivazione che queste due confezioni indurrebbero il bambino che gioca a pensare come sia normale sfruttare -estirpandoli dal loro elemento naturale- gli animali.
Schiacciato dalla piramide dei bisogni di Maslow, che mi farebbe preoccupare prima per le famiglie dei lavoratori della Lego di Lainate -a rischio di cassa integrazione- e poi per le nefaste conseguenze sulla mente delle piccole potenziali Moire Orfei, personalmente sarei propenso a dar priorità ad altre forme di attenzione e protesta. Ma eviterò ogni valutazione e passerò invece a fare notare come questo articolo sottolinei in ogni caso il peso e importanza didattica che può assumere la simulazione attraverso il gioco.
Peso e importanza all’opposto denigrato e sconfessato da un altro articolo legoconnesso pubblicato da La Repubblica.it che a firma di Marina Cavalleri e titolato “Guidare alianti e fare origami: così il manager diventa leader”, cita col solito sottotono ironico, o meglio sarcastico, le aberrazioni della formazione esperienziale: immersioni nella vasca degli squali, voli in aliante e travestimenti da Superman con allegato volo carrucolato.  Fra le evidentemente risibili (per la giornalista) attività formative metaforiche Marina inserisce naturalmente anche l’idea balzana di giocare col Lego, una delle attività statisticamente più citate di formazione demenziale, quando se ne vuol parlare male, insieme al firewalking. Si potrebbe obiettare che il secondo articolo parla di uso adulto del Lego e il primo invece di uso infantile, ma si dimenticherebbe allora che non pochi professoroni di università anche illustri hanno dimostrato come l’uso del gioco sia essenziale per la tenuta intellettuale a qualsiasi età. Partendo dalla famosa affermazione di George Bernard Shaw che diceva “L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare". Affermazione a cui si allinea  per esempio l’associazione «Giovani nel tempo» (citata dal terzo quotidiano che vogliamo coinvolgere in questo pezzullo, la Stampa), che si propone di realizzare e in seguito di commercializzare una serie di intrattenimenti in scatola, in grado di allenare e mantenere le capacità cognitive e contemporaneamente di proteggere la salute psicologica individuale negli anziani. Parte dei proventi verranno devoluti alla ricerca sull’invecchiamento condotta dal dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna. Mica pizza e fichi.
Alla fine di questa breve meditazione, il senso che me ne rimane  potrebbe essere sintetizzato in una sola frase: ma perché i giornali non si occupano di cose serie in modo serio? Magari potrebbe aiutarli a questo fine una formazione che usi anche mattoncini colorati… naturalmente dando loro una base teorica e uno studio delle esigenze intellettuali e aziendali dei giornalisti –prima- e fornendo poi adeguati debriefing –dopo- per analizzare come si sono comportanti nell’ambito della metafora esperienziale, e come potrebbero ricavarne utili insegnamenti relativamente al loro lavoro (tutte cose di cui i professionisti alla Cavalleri non parlano ovviamente mai nei loro articoli, sennò si stempera il colore).

lunedì 26 novembre 2012

QUESTIONE DI SCELTE


Mi è stato chiesto di ponzare qualche gioco, target adolescenti, mirato al tema “decidere”. La circostanza è un libro –da proporre nelle scuole medie italiane- di orientamento circa quale indirizzo di scuola superiore scegliere dopo la terza media. Libro uscirà per i tipi di Dante Aligheri editrice,  firmato da Rosalba Silveri, insegnante, coach e curiosa seguace della metodologia esperienziale nella formazione.
Nota a latere: quando il libro uscirà, consiglio anche agli adulti e vaccinati di leggerlo, perché nella sua prima parte -quella di teoria su come i ragazzi scelgono e/o dovrebbero scegliere il loro futuro- ci ho trovato un sacco di stimoli importanti e intelligenti anche per gli adulti.
Tornando ai giochi (che sarebbe la parte di cui qui ci si interessa in modo specifico) ne ho sviluppati due, legati  ad aspetti secondo me fondamentali nel decision making, come dicono i fighi: il primo dedicato alla necessità di ampliare la visione del contesto in cui si può/deve decidere, il secondo sull’analisi delle modalità in cui le persone importanti nella storia hanno preso le loro decisioni e contemporaneamente a quelle che ogni giorno, a livello di carattere personale, ciascuno usa per prendere le sue importanti decisioni.

Creare giochi per la scuola prevede due aspetti sensibilmente diversi dalla progettazione commerciale: non si può pretendere che ci si applichi più di tanto per capire le regole, e non si richiede la ripetitività (nel senso che si fa una volta e poi più).
Per risolvere il primo aspetto ho puntato a proporre qualcosa, in entrambi i casi, che fosse ragionevolmente già noto, come il gioco di società “fiori fiumi e città che cominciamo per…” e nel secondo caso sviluppando il classico meccanismo del quiz show che tutti hanno presente.

Nello specifico, per il primo gioco ho pensato di fare lavorare mentalmente i giocatori sul superamento della banalità del primo pensiero, seguendo le logiche note della creatività e dell’innovazione (un po’ Edward De Bono e un po’ Annamaria Testa). Proponendo di far cercare, in team, il maggior numero di attività diverse ma legate ai mondi più amati e a cui di solito si orientano i giovani: la musica, lo sport, le vacanze eccetera, scartando le idee più banali ed immediate.
In altre parole: si chiede alle squadre di pensare ad  attività legate a professionalità indicate da carte-tema, ma il più allargate e originali possibili, perché quelle trovate da più di un team vengono eliminate. In questo modo si scopre, se amiamo la musica ad esempio, che oltre a fare il cantante  e studiare al conservatorio ci si può orientare anche alla costruzione degli strumenti (liuteria); alla vendita come agenti di commercio di marchi famosi come Yamaha o Sony o Bontempi; all’organizzazione di concerti; all’insegnamento musicale in organizzazioni onlus; all’apertura di negozi dedicati ad oggetti connessi al mondo musicale; alla carriera di tecnico del suono o ingegnere del suono con progettazione di studi di registrazione; alla discografia on line e così via. Starà poi agli insegnanti, una volta “scoperte” le professionalità meno evidenti al primo pensiero, di lavorare con i ragazzi – anche con l’aiuto della guida del libro- alla ricerca dei percorsi scolastici più adeguati per arrivare a quell’obiettivo professionale.

Per il secondo tema ho sviluppato un gioco alla CarloConti/Rischiatutto, in cui le squadre devono prendersi la responsabilità del rischio di continuare a farsi fare domande o ad accontentarsi di un certo punteggio, lavorando sulla loro capacità di visione strategica di gioco.
Domande inoltre che devono essere elaborate dai partecipanti stessi sulla base di ricerche a casa, con l’aiuto di una piccola guida “come si crea una domanda”.
E tutte ovviamente con una giustificata connessione al tema delle scelte e delle decisioni. Tipo il “dado è tratto” per intenderci: cosa ha fatto Cesare prima di decidere, quali conseguenze avrebbe potuto ipotizzare, con chi si era consigliato per decidere, eccetera…
Naturalmente anche qui si chiede poi agli insegnanti di intervenire per guidare l’elaborazione dei temi che escono dal gioco, ma questo è un altro degli elementi che creano differenza fra giochi didattici e giochi commerciali… i primi prevedono la presenza di un conduttore intelligente e preparato, e di professoresse così, nonostante le varie riforme, pare che ce ne siano ancora davvero tante (anche se magari non tutte come quelle dell’eredità…)

martedì 20 novembre 2012

GAMIFICATION 2 IL RITORNO

Il 5 settembre scorso avevo postato un pezzullo sulla moda della gamification, o meglio ancora sull’uso improprio del definire nuovo questo prodotto vecchio ma con questa nuova etichetta molto trendy. Per i meno attenti ripetiamo che questa sedicente nuova tendenza non è altro che il vecchissimo sistema di raccolta punti (con relativi premi) in funzione di determinate attività che si vogliono spingere.
Su Wired Italia.it, la newsletter della nota e apprezzata rivista su innovazione e tendenze, esce ogg i in primo piano l’articolo titolato “L'esercito israeliano e la gamification della guerra” ripreso da un pezzo di John Mitchell, che vi potete leggere direttamente in http://readwrite.com/2012/11/15/unbelievable-the-idf-has-gamified-its-war-blog.
Il titolo è un attimino critico-deviante rispetto al contenuto del “gioco”, che di fatto esiste già da tempi non sospetti e risulta un invito a visitare e sostenere, tramite i social network, il blog dell’esercito israeliano The Israel Defense Forces (IDF; Hebrew: צְבָא הַהֲגָנָה לְיִשְׂרָאֵל ) che pure vi potete vedere in prima persona (in inglese e caratteri europei) andando a  http://www.idfblog.com/
Il gioco-raccolta punti si chiama Idf Rank e permette di guadagnare gradi virtuali, badge e punti condividendo i contenuti del blog che, fra molte altre cose, racconta ANCHE  l'attuale operazione a Gaza

Fare punti è semplice: con dieci visite al sito si diventa “ Consistent”, con varie ricerche all'interno del blog, invece, si viene promossi al grado di “ Official Research". Fino ad arrivare dopo molte visite e altrettanti “mi piace” a generale.
In realtà  il meccanismo era stato lanciato oltre quattro mesi fa, con momenti più o meno presenti nella home page del blog.  L’interpretazione di  Mitchell fa pensare che l'esercito voglia portare avanti una vera e propria operazione di gamification di Pillar of Defence, collegata alla campagna di infromazione/promozione dell'offensiva sui social media, e dall'altro mira a coinvolgere ancora di più gli utenti del Web nel pubblicizzare le azioni militari.

Naturalmente messa così (giochiamo con l’operazione Pilastro della Difesa, mentre muoiono centinaia di persone) l’idea fa inorridire. Mitchell ha chiesto spiegazioni a @IdfSpokesperson, il portavoce dell'esercito responsabile della presenza di quest'ultimo sui social media, che gli ha risposto : “ Il meccanismo di gioco è stato concepito diversi mesi fa come parte dei nostri sforzi per creare una comunità interattiva e per incoraggiare l'interazione sociale generata dalla presenza dell'Idf nei diversi social media. Il blog, lanciato nel 2009, non aveva l'intento di essere un blog di guerra, ma piuttosto un sito inteso a incoraggiare la trasparenze e l'informazione. Anche se durante l'operazione Pilastro della Difesa  forniamo ai nostri lettori upadate e informazioni sulle azioni dell'esercito, in altri momenti sono stati pubblicati contenuti diversi, dalle attività di routine a storie personali. In nessun modo Idf Rank vuole rendere un gioco l'operazione Pilastro della Difesa o qualunque altra azione militare”. 

Per chi fosse interessato all’aspetto tecnico riportiamo un pezzetto del testo copiaincollato dal blog stesso:

“That’s the spirit, soldier! Welcome aboard. Now get started and score some badge! You can earn badges by completing several specific tasks. For instance, ‘like’ 3 different articles in the front page and you’ll get a brand new badge for that".

Il resto potete vedervelo navigando direttamente e da soli nel blog.

Per chi invece fosse interessato al più italico fenomeno culturale della gamification e a quello della connessione fra gioco e argomenti “scottanti” (a me evidentemente abbastanza cari), rinnoverei  l’invito a meditare, senza pretese di suggerimenti o commenti, sul fatto che:
A)   il gioco è un potente strumento di comunicazione e coinvolgimento, e
B)   che certe prese di posizione sugli aspetti metaforici del gioco forse sarebbero più efficaci se portate avanti in concreto nelle realtà che queste simulazioni riproducono.

martedì 13 novembre 2012

HARRYPOTTERFORMAZIONE


Daniel Pennac, in “Come un romanzo”  (lo trovate ai tipi della solita Feltrinelli, anche in edizione economica) scrive dell’approccio alla lettura soprattutto nelle scuole, e comincia dicendo :

"Il verbo leggere non sopporta l'imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo amare... il verbo sognare..."

Dopo di che il Daniel passa a declinare il suo personalissimo decalogo circa i diritti del lettore:

1-          non leggere
2-          saltare le pagine
3-          non finire il libro
4-          rileggere
5-          leggere qualsiasi cosa
6-          bovarismo (malattia testualmente contagiosa)
7-          leggere ovunque
8-          spizzicare
9-          leggere ad alta voce
10-       tacere

A parte il bovarismo -che non sapevo cosa fosse e ho dovuto cercarlo sul dizionario Hoepli (bovarismo [bo-va-rì-ʃmo] s.m. LETTER Atteggiamento di chi si ritiene diverso da quello che è, costruendosi un mondo immaginario nel quale proietta desideri e frustrazioni che nascono dall'insoddisfazione per la propria condizione reale)- sono abbastanza  d’accordo.

Tanto d’accordo anzi, che ultimamente mi sto chiedendo se il codice Pennac non si potrebbe/dovrebbe applicare anche al verbo crescere: si può ordinare a qualcuno di crescere? Non è che in aula spesso viene usato l’imperativo per questo verbo?
  
In aula io di solito chiedo ai partecipanti, iniziando qualsiasi corso: ci siete venuti o vi ci hanno mandati? La domanda non è gratuita: essendo ancora convinto di poter aiutare le persone a fare qualcosa meglio –magari solo un po’- di quanto non facciano prima di avermi incontrato (in altre parole: crescere), il sapere se sono volontari interessati o “deportati” (nel senso letterario di portati via da un luogo – la loro scrivania- per arrivare ad un altro – l’aula) dovrebbe fare la differenza nell’approccio didattico. Nella maggior parte dei casi devo mestamente riconoscere che la risposta vira più sulla seconda ipotesi che sulla prima. 

E’ l’azienda che ha la percezione della necessità di fare crescere le sue persone (che qualcuno  chiama anche “risorse” paragonandole a rame, martelli o computer), ma spesso le persone oggetto dell’attenzione non percepiscono questo bisogno. O non lo percepiscono allo stesso modo dei loro mittenti.

Allora non potrebbe essere più efficace una formazione che copiasse il codice pennacchiano e sancisse come diritto dei  partecipanti (condiviso con l’azienda committente, ovvio)  di

1-          Non partecipare se non si crede di averne bisogno
2-          Saltare le slide che si sono già viste facendo disegnini liberi
3-          Non finire un corso
4-          Ripetere un corso che è piaciuto
5-          Fare formazione su temi almeno condivisi col capo
6-          Bovarismo (che va sempre bene, anzi in questa accezione anche meglio)
7-          Studiare e aggiornarsi ovunque, anche dopo il corso
8-          Spizzicare fra diversi cataloghi formativi
9-          Sperimentare in concreto fin dall’aula
10-       Ascoltare e basta, senza esser costretti a rispondere alle domande

 
Forse ci sarebbero alcune defezioni dalle aule (quelle che mentalmente comunque si verificano) ma si potrebbe lavorare molto meglio con quelli che rimangono…
Forse le aule dei formatori bravi sarebbero piene e quelle di quelli meno bravi vuote.

Mi rendo conto di sognare, ma i miei colleghi coach mi hanno spinto a pensare, ogni tanto, a cosa vorrei fare se potessi avere una bacchetta magica come Harry Potter… EXPELLIDOCENT!

domenica 11 novembre 2012

TEMPUS FUGIT


Ho avuto occasione ultimamente di gestire diverse aule orientate al tema della gestione del tempo. E in tutte ho trovato nella stragrande maggioranza dei partecipanti forte adesione alle stesse obiezioni iniziali, quasi sempre  basate su tre elementi – resistenti: “non ho mai tempo abbastanza”, “per me è inutile organizzare il tempo, tanto sono sempre preda di imprevisti” ed “è tutto urgente e importante” .
Non starò qui a ristrutturare tutte queste affermazioni in funzione di tutte le possibili soluzioni, roba per cui non a caso la formazione chiede alle aziende e alle persone di dedicare due intere giornate – che peraltro poi spesso non bastano nemmeno.

Invece, dato che qui siamo in ambiente gioco-formativo (scusatemi ma il termine ludoformativo mi fa sempre un po’ ribrezzo, non so perché),  vi propongo un piccolo esercizio da fare inizialmente, che di solito permette ai partecipanti di piombare in modo esperienziale e immediato nel mood mentale giusto per affrontare questi pensieri.

Materiale necessario e sufficiente: una manciata di sassolini –diciamo una trentina- se possibile colorati in modo ben distinto. Metteteli su un tavolo a una decina di metri dal punto di partenza in cui posizionerete un certo numero di persone giocatrici. Attenzione: il percorso fra partenza e arrivo deve essere libero da ostacoli, non scivoloso-bagnato e i giocatori devono avere scarpe adeguate (non fare attenzione, quando si fa giocare in aula, a tacchi 12 o piastrelle sconnesse potrebbe provocare seri danni alla salute economica del formatore).
L’obiettivo che darete sarà quello di “ottenere il maggior numero di punti possibile” in 20 secondi, trasportando un sassolino alla volta dal mucchio iniziale al punto di partenza. È fondamentale dare la regola così come l’ho scritta, ripetendola magari anche due volte per essere sicuri che tutti abbiano sentito bene (anche così troverete chi contesterà la cosa dicendo che avevate dato come obiettivo “chi riporta più sassolini”… ma questa è un’altra storia).
Subito dopo, senza lasciare il tempo di pensare troppo, date il via al primo concorrente, che di solito parte subito cercando di correre il più velocemente possibile a riportare sassolini presi a caso.
Mettete da parte il bottino del primo giocatore e poi fate partire in successione altri giocatori-formandi, ripetendo il tutto.

Prima o poi qualcuno, forte anche della possibilità di aver visto prove altrui, vi chiederà lumi sul concetto di punteggio. Dategli la possibilità di fare la domanda DENTRO il tempo dei 20 “, e rispondete che quelli bianchi valgono 10 punti, tutti gli altri solo uno. Il tipo immediatamente partirà e riporterà molto meno sassi ma solo bianchi.
A questo punto fate notare alla platea –che peraltro di solito avrà già capito  gioco,  senso e  conseguenze del tutto anche se non glielo spiegate-  come con meno sforzo costui vince il gioco, grazie al fatto di aver investito parte degli apparentemente insufficienti 20” a identificare meglio i termini del problema.
Poi regalate un sassolino a ciascun partecipante del corso, come memo dell’informazione ricevuta: fa piacere e serve davvero come àncora mnemonica.

La cosa fa ancora più piacere se il gioco lo fate usando  mattoncini di Lego.


Lego, uno strumento molto interessante e sempre più usato anche  in formazione esperienziale, tanto che qualcuno ne usa un modello addirittura con marchio registrato, come per esempio Leonardo Previ di Trivioquadrivio http://www.triq.it/lspunit/file/facilitators/previ.htm
che ne ha ottenuto la  relativa certificazione 
( se la volete anche voi, le date e i luoghi definiti  li trovate a http://seriousplaypro.com/2012/02/10/certification-program-in-the-lego%C2%AE-serious-play%C2%AE-method. )

Io resto dell’idea che l’importante di queste esercitazioni, alcune della quali ho trovato anche molto interessanti, non dipendono dai mitici mattoncini ma da quel che ci sta dietro, tanto che molte di esse funzionano benissimo anche con sassolini colorati (come visto sopra), cannucce colorate o bottigliette di plastica per alimenti.

Però devo riconoscere che quando si tira fuori in aula una scatola col marchio danese le persone sorridono all’idea di usarla, e questo potrebbe già di per sé risultare un indiscutibile incentivo all’uso del famosissimo marchio.

mercoledì 24 ottobre 2012

Un video sui giochi "educativi"

Questo post è minimalista e vuole solo segnalare un video trovato stamattina nella mia pagina iniziale di Google. il link è http://www.youtube.com/watch?v=RrZdXHM2uBA&feature=youtube_gdata

La meditazione non c'è e la lascio a chi ha voglia e tempo di leggere queste righe. 
Anzi no, solo due pensierini.
Primo: riprendendo un post di qualche giorno fa: si può fare educazione coi giochi? Credo evidente che la risposta sia si, in molti modi. Basta stare attenti a quello che sta fra le righe, e non parlo di subliminalità...
Secondo: i giochi orientati in qualche modo all' edutainment (Educational Entertainment) stanno cominciando a diventare argomento di discussione allargata, e questo può essere solo un bene.

A proposito di edutainment, non possiamo esimerci dal salutare una persona che a questo obiettivo ha comunque dedicato tutta la vita (oltre a creare un piccolo impero editorial ludico e una dinastia di ottimi manager tramite figli e figlie), che ci ha lasciato pochi giorni fa: il grande vecchio del gioco italiano Mario Clementoni.
Anche se queste pagine sono più indirizzate al concetto di educazione e formazione adulta, non possiamo dimenticare quello che la Clem ha fatto per i bambini italiani e non in anti anni, e non solo col mitico Sapientino.
Arrivederci grande Mario.

martedì 23 ottobre 2012

AVATAR


Qualche giorno fa Ludovico Pasini, detto Dudo Dado Pensante, amico e collega, mi chiede se ho qualche idea per un gioco di ruolo formativo, centrato sul tema del locus of control, da proporre a una ventina di aziendali. Come dice Luca Saita in un suo illuminante articolo (http://lucasaita.it/locusofcontrol.html), il  locus of control corrisponde al  modo nel quale una persona percepisce se stessa rispetto al controllo degli eventi. Un locus "esterno" scarica sul destino o sugli altri la responsabilità di quanto accade. Un locus "interno" vede invece il soggetto molto più indirizzato a considerare il destino come un effetto delle proprie azioni, e quindi una variabile controllabile. Insomma il controllo interno porta dritto alla famosa massima latina: cuisque faber fortunae suae (ognuno è artefice del suo destino).
Il Dudo ipotizza –correttamente, secondo me- che un gioco di ruolo possa sviluppare un ambiente formativo esperienziale adatto al tema:  dato un master che gestisce un’avventura ragionevolmente semplice, le modalità di approccio ai problemi e alla relazione da parte dei partecipanti permetterebbero ad alcuni osservatori all’uopo posizionati in aula di analizzare e poi riportare in debriefing, tramite oggettiva analisi dei comportamenti agiti nel gioco, le tendenze di ciascuno ad attribuire all’esterno la responsabilità degli accadimenti ludici (e poi reali), oppure a farsi carico e responsabilità degli stessi tramite controllo interno consapevole della loro gestione.
Funziona tutto, anche l’assenza di materiali con relativi costi (nei role playing si lavora con la fantasia e la voce, che costano pochissimo).
Unico neo, l’impossibilità di gestire un gruppo così numeroso con questa modalità di gioco: un master pur bravo non può controllare e condurre un gioco in cui decidono agiscono e si scontrano più di sei/sette personaggi.
Tempo prima avevo già affrontato lo stesso problema per un cliente diverso ma con le stesse problematiche logistiche, ed avevo sviluppato un’ipotesi di  lavoro sempre in role playing, ma su due piani diversi, tenendo nel gioco solo sei personaggi (in cerca d’autore, se vogliamo) e facendoli gestire da altrettanti gruppi invece che da singoli. Un po’ come se ciascun team gestisse un suo avatar nella storia. Un avatar, insomma, le cui azioni e decisioni non erano tanto spontanee come succede dei normali role playing formativi, ma più meditate grazie al filtro di una serie di decisioni comuni.
In concreto: al master che segnala la situazione in cui agire “in un cortile in cui non si vede molto bene perché molte luci sono spente e molte lampadine rotte, sentite una voce provenire da un angolo buio in basso senza però distinguere quel che dice…” ogni team -che corrisponde  ad un personaggio della storia-  si raduna per un tempo massimo predefinito, decide cosa fa il suo personaggio (ad es. “ parte da solo nella direzione da cui proviene la voce” – piuttosto che “si ferma e cerca di trovar un modo per aumentare la luce  facendo torcia di un giornale che aveva con sé”) e poi tramite portavoce lo comunica al master che ne prende atto e porta avanti l’avventura, raccogliendo via via le diverse dichiarazioni dei team e gestendone le conseguenze.
Alla fine di ogni capitolo della storia il racconto si ferma e i gruppi ragionano –prima con un facilitatore per gruppo e poi in plenaria- su come hanno fatto comportare i loro avatar, in ottica focalizzata naturalmente ad analizzare gli elementi base legati al tema locus of control.
Purtroppo io per ragioni diverse non avevo potuto sperimentare questa procedura, ma il suddetto Dudo, acquisita e  implementata questa modalità di ludotransfert, è riuscito a portare avanti il progetto, constatando che, a fronte della perdita di un po’ della spontaneità tipica di questa metodologia esperienziale, il gioco e la formazione hanno funzionato, e l’aula ci ha guadagnato in analisi razionale. In ogni caso il risultato di questo role playing -malgrado la modalità avatar-  ha  ottenuto un fortissimo coinvolgimento: il 95 % dell’aula si è calato comunque fortemente  nei vari ambienti della storia, mantenendo emozioni e stati d’animo nonostante l’evidente  distacco  “meccanico”  tra avatar e persone che lo “guidavano”.

In compenso, grazie ai diversi piani di meditazione su come le persone vere del gruppo hanno deciso di far agire e reagire agli stimoli dell’avventura i loro avatar, è stato poi possibile trasferire efficacemente il tutto sul piano della realtà quotidiana lavorativa. Con soddisfazione dell’azienda che aveva commissionato il progetto.
Ebbravo il Dudo.

mercoledì 3 ottobre 2012

MA SI PUO'?


In questo blog si parla di gioco, didattica e formazione come pare evidente dal titolo. 
Uno dei temi fondanti quindi è l’uso del gioco per insegnare qualcosa.
 A volte il gioco viene usato per analizzare le competenze, altre volte per studiare le relazioni, altre ancora per creare, magari attraverso la provocazione, reazioni utili alla crescita dei “discenti” .
A volte il gioco viene anche usato come simulazione protetta, per fare sperimentare ambienti e attività che nella vita reale comporterebbero, in caso di errore, costi insostenibili (vedi un classico, il flight simulator), oppure attività non praticabili in sedi normali.
A questa valenza anche liberatoria tuttavia c’è chi sostiene che si dovrebbe comunque porre un limite, magari determinato dal buon senso e dal rispetto di chi si ha davanti. 

Tempo fa ricordo un forte polemica derivata da un gioco dal titolo esplicativo: Lager
Si simulavano i campi di sterminio e lo scopo dei giocatori era di ottimizzare il “servizio” reso appunto dalle camere a gas.
Ad una inevitabile grande indignazione sollevata in chi riteneva che quell’argomento non potesse essere in nessun caso oggetto di simulazione ludica, gli autori rispondevano che quella provocazione era uno strumento efficacissimo atto a portare a conoscenza del pubblico -e soprattutto di quello infantile- l’infamia della soluzione finale hitleriana. Secondo gli autori aveva quindi una importante funzione didattica, eticamente non più discutibile di giochi che simulano la guerra –come i wargame o anche Risiko!-, o che ripropongono il crimine tipo Thief, una fortunatissima serie di videogiochi Stealth pubblicati da Eidos Interactive.
Lager venne comunque quasi subito ritirato e non se ne seppe più nulla.(fortunatamente, mi permetto di dire io).

Oggi apro IGoogle e in prima pagina trovo il video più cliccato del giorno: Squillo, un gioco che permette ai giocatori di interpretare magnaccia e papponi in uno scontro di raket metropolitano. Nel promovideo -che ovviamente ho aperto subito confermando il valore virale di questo tipo di marketing- si propone questo ambiente  con una chiarezza al limite dell’imbarazzante. L’autore è Immanuel Casto, principe del Porn Groove (che confesso di non sapere cosa sia, ma lui se lo dice da sé), sedicente membro anche del Mensa (che invece so cos’è, il club dei maggiori intelligenti internazionali, in cui peraltro è accettato anche Sylvester Stallone…). Di sé Immanuel dice anche di aver collaborato con Paolo Magagna (Teatro dell’Ascolto), Marina Pitta e Gianfranco Rimondi (Teatro dei dispersi) che non so quanto siano lieti di questa citazione. 

Alcune chicche della presentazione: “Una sfida a colpi di fellazio” “puoi mettere Manu –una delle carte puttana- sotto antidepressivi”, una testimonial afferma “si può trovare sesso occasionale, abuso di stupefacenti e sensi di colpa. Mi sono detta: ma questa sono io!”. Ebbrava!
Il valore delle carte è il tramite attraverso cui ogni prostituta permette un ricavato da prestazione, ma "in caso di difficoltà si può recuperare anche un incasso dalla vendita dei suoi organi".

Non so come funzioni il meccanismo (parrebbe una specie di Magic), e credo che il game design rispetto al contenuto di immagini e testo non abbia poi molta importanza.
Certo è un gioco che racconta di cose che in effetti entrano in ogni casa ogni sera tramite quasi ogni telefilm, e leggiamo in tantissimi libri. Certo parla di cose che dovrebbero indignare nella realtà prima che nella simulazione del gioco. Certo sarebbe meglio che i critici si dessero da fare per sostenere il Gruppo Abele o la Caritas prima di attivarsi per far ritirare questo gioco.

Alla fine mi concedo di rispondere alla domanda del titolo: FORSE SI PUO'.
Però mi autorizzo a credere che non sia giusto giocare in questo modo, e che l’attenzione al problema della tratta delle bianche e delle nere non necessariamente debba passare da questo tipo di provocazione che personalmente non ho nessuna intenzione di usare nè didatticamente nè per passatempo. Men che meno fornendo guadagno al più grande furbacchione porno DJ che abbiamo in Italia. 
Che paradigmaticamente conclude il suo spot dicendo: “è vero sono biondo ed ho un corpo perfetto, ma questo mi da forse il diritto di ridicolizzare tematiche così drammatiche e di farne addirittura un gioco? Sì” . Ma che fosse amico di Corona...?

So che con questo post gli sto facendo pubblicità… però se anche uno solo dei miei pochi  lettori si andasse poi -oltre che a vedere il video, lo so che lo farete- anche a leggere il documento sulla tratta della prostituzione che trova a
magari, vai a vedere che anche il nostro Casto ha fatto involontariamente  formazione…

E su questo davvero mi piacerebbe leggere qualche commento.

lunedì 24 settembre 2012

IL GIOCO FORMATIVO: CONTENUTO E CONTENENTE


Giusto poco tempo fa, davanti a un ottimo piatto di tortellini, si chiacchierava con il Giovanni Brusa e il Liga Ligabue di giochi formativi, di cavoli e di re (chi non capisce il riferimento si legga Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, del buon vecchio Carroll).
Dell’ameno conversare ho già scritto a suo tempo. Oggi vorrei meditare su un tema uscito da quel desco, partito dall’affermazione di Liga: il gioco dell’oca non è adatto alla didattica
Andrea sosteneva che essendo un  gioco di pura fortuna, nessuno impara nulla utilizzandolo. Brusa, supportato dall’amabile anfitriona Giulia Ricci, lo contrastava con vigore, sostenendo che invece il percorso, anche se obbligato, è strumento estremamente utile. Cercando di capire meglio le posizioni, è emerso che il primo aveva ragione, perché pensava al gioco come strumento di attivazione di comportamenti: presa di decisione, collaborazione fra giocatori, pensiero strategico, problem solving… tutte cose che emergono con efficacia e facilità nell’usare regole più o meno complesse, ma comunque effettivamente non nel gioco dell’oca. Giochi che vengono utilizzati come metafora in sè, indipendentemente dal ”vestito” che portano, che mettono addosso. Tanto è vero che possono essere anche astratti, mentre un gioco dell’oca astratto è quasi un ossimoro. E comunque una pirlata intellettuale.
I secondi avevano a loro volta ragione, perché pensavano al gioco dell’oca (e tutti i suoi derivati e riferiti come scale e serpenti per esempio) come supporto per una metafora comunicativa efficace e facile da usare: in quest’ottica non è il meccanismo regolamentale a fare didattica, ma la rappresentatività dei contenuti delle caselle.  Una casella che ti fa avanzare ha un contenuto positivo, una che ti ferma o fa arretrare ovviamente negativo, e quando hai come obiettivo il passare un messaggio attraverso l’ancoraggio mnemonico di situazioni positive e negative, in effetti questo è uno dei modi più facili e immediati per ottenerlo. Non a caso la maggior parte dei giochi didattici della storia del boardgame sono proprio giochi di percorso elementare. 
In più l’uso del meccanismo tiro di dado-movimento pedina-conseguenze della casella di arrivo è assolutamente noto, intuitivo e permette di non perdere nemmeno un istante per la spiegazione del regolamento. E al tempo stesso permette di vincere le resistenze di chi non ha nessuna voglia di studiare regole minimamente complesse (cioè quasi tutti). 

Secondo me è importante ricordare, quando si usano giochi in aula, che i partecipanti non sono appassionati gambler, il gioco è strumento e non obiettivo, spesso gli astanti non ci sono venuti ma ce li hanno mandati. E quindi non li si può pretendere interessati per forza ad un esercizio mentale che non a tutti interessa.

Una terza via d’uso che ho sperimentato con successo (scoprendo ovviamente di non essere l’unico a averla scoperta) è quella di far creare ai discenti stessi il loro percorso simbolico,  relativo (ad esempio) al posto di lavoro. Dando una dotazione generale uguale per tutti, diciamo 60 caselle, di cui magari 15 positive, 30 neutre e 15 negative. E poi facendo confrontare fra loro i percorsi che ne derivano, lavorando sulle diverse percezioni di “peso” fra positività e negatività.
Si ottiene una specie di SWOT analysis ludica molto efficace, facile e veloce da sviluppare.
 Il che si potrebbe ottenere anche facendo disegnare giochi più complessi, magari con risultati molto più interessanti dal punto di vista ludico, ma rischiando di incappare una serie di complicazioni a volte anche inutili.

sabato 22 settembre 2012

LA FORMAZIONE SI PUO’ FARE COL GIOCO, MA NON E’ UN GIOCO


Piccola meditazione dedicata a come vede la gente la possibilità di crescere.

Sto lanciando, come credo di aver già comunicato,  un piccolo corso di formazione dedicato a chi -di solito- non riceve questa opportunità (dicono tutti che la formazione è un’opportunità di crescita…). Un corso che lavora sulle capacità di comunicazione, di negoziazione, di gestione del tempo e del cambiamento, quindi insomma capacità di lavorare in gruppo, meglio di quanto non si faccia già di solito (tutti/molti lavoriamo già, ovviamente).
I potenziali partecipanti (d’ora innanzi definiti PP, maiuscolo per rispetto) a cui viene offerta la cosa sono: studenti, impiegati, casalinghe. Persone che non hanno la possibilità di trovare qualcuno –di solito HR aziendale- che dica loro : “domani vai a questo o quel corso di formazione. Paghiamo noi perché ci serve che diventi un operatore più efficace.”
Data la complessità e la ricchezza del tema, inevitabilmente si svolge in 4 giornate, proposte di sabato o domenica per non tagliare fuori chi lavora normalmente la settimana. Costo: 250 Euro a persona.
Che dedotta IVA fa circa 200 (non si sa più quanto conta l’IVA ormai…) e dedotte le tasse fa  circa 100 euro da fare arrivare nelle mie rapaci tasche.  Quindi 25 Euro netti a giornata di docenza a partecipante, che all’ora (sono diciamo sette ore nella giornata tipo) cubano per me meno di 4 euro all’ora.

I PP concordano che per offrire una potenzialità di  crescita personale e di lavoro forse chiedere 3,5 euro all’ora non sono tanti, aggiungendo però: "ma comunque i 250 Euro li devo cacciare io" …. e hanno ragione.
Poi i PP pongono il secondo problema: ma 4 sabati di fila?
Una prima risposta sarebbe : se ogni sabato vi dessi 50 euro per stare lì 7 ore a non fare niente, li impegnereste questi 4 giorni? Di solito il PP-tipo risponde “quando si comincia”?
Ergo, una giornata di crescita personale vale nell’immaginario del PP-tipo meno di 50 euro.

Ho rispetto massimo per ogni tipo di pensiero ed obiezione, però allora ho il diritto anche io di pensare: sento chiedere da tutte le parti, sindacati, operatori sociali, politici, industriali, tv, giornali responsabili scolastici che la formazione sia il cardine della crescita di una persona e di una nazione. Quindi sarà vero.
Bisognerebbe però aggiungere: basta che la paghi qualcun altro, basta che sia in periodo di lavoro e non festivo, che le feste le devo dedicare a me. Magari andando a fare corsi di fotografia, di tango, di bricolage vero, non comportamentale, che magari costano più di 8 euro all’ora (lorde)
Arriverei, a questo punto, un ultimo pensierino: se non impariamo ad affrontare il problema di questa nostra crisi impegnandoci in prima persona con risorse, tempo e perché no anche denaro nostro; se continuiamo ad aspettare che lo stato, la società, l’azienda risolvano un nostro oggettivo problema, forse, dico forse, dal tunnel non usciamo. 

mercoledì 19 settembre 2012

VIDEOGIOKANDO


Il blog di recensioni http://il-flauto-di-pan.blogspot.it/2012/09/anteprima-game.html?spref=fb ha pubblicato stamattina la copertina con relativa recensione di The Game, l’ultimo libro di Michael Olson,  Il titolo non ci poteva sfuggire, la trama riguarda uno psicopatico autore di videogame, il finale lo lascio alla vostra curiosità. Quello che si connette qui con l’argomento a noi caro è l’influenza che può avere un videogioco sul comportamento di una persona. È risaputo che dopo una partita a F1 o Motor Race (o anche solo Mario Kart) è meglio non mettersi in strada: le percezioni di rischio si abbassano molto passando dal virtuale al reale, e si può diventare un po’ più azzardosi del dovuto. Guardate che è vero: confesso che l’ho provato sulla mia pelle.
È altrettanto evidente che questa possibilità di rischiare-senza-rischiare può essere sfruttata in formazione d’aula per portare le persone a livelli di presa di decisione che in realtà sarebbe difficile evidenziare in altro modo (di solito l’azienda non gradisce che i suoi formandi decedano in aula). In giochi di ruolo in cui si analizza qual è la propensione al rischio, esempio ovvio visto quanto detto sopra, c’è chi muore in un adventure game venti volte e chi solo due. Non serve per definire se uno agisce meglio dell’altro in assoluto, ma magari per vedere come ciascuno di loro prende le sue decisioni in modo più o meno strutturato e strategico ( a volte morire molto in un videogame può essere usato per imparare molto…).
Altra cosa che io trovo molto interessante in queste esperienze videodidattiche è la possibilità di aver altre scelte, cosa che nella vita reale non si ha. Si può tornare indietro e vedere cosa sarebbe successo se… Tanto per cominciare questo è fondamentale per evidenziare -nel caso di lavoro sulla visione strategica- il concetto che nessuna scelta è davvero obbligata e che esistono sempre alternative ad ogni soluzione.
Lo stesso concetto di apprendimento per tentativi ed errori tipico del videogioco  permette spesso e facilmente di auto analizzare quanto ciascuno di noi riesce a usare gli strumenti teorici a nostra disposizione  e quanta fatica facciamo a trattenerci dal “proviamo subito”. Ogni videogame ha un libretto di istruzioni che di solito aiuterebbe a giocare meglio… se lo si leggesse. Un po’ come nella vita di ogni giorno, nei progetti di lavoro: ci sono documenti ed esperienze che possiamo usare per lavorare meglio e più in fretta. Eppure, proprio come in un qualsiasi MMORPG ( Massive Multiplayer Online Role Play), ci è spesso più facile buttarci nell’azione piuttosto che “perdere tempo” a vedere quali strumenti possiamo usare e come.
Questo spiega molto bene, insieme a parecchio altro, Piermarco Rosa in Keiron
(http://www.lameridiana.it/SchedeDettaglio/DettaglioPubblicazione/tabid/61/Default.aspx?isbn=9788861532526), nel suo articolo dedicato appunto all’uso del videogioco nella didattica. Leggerlo in parallelo a The Game è un’esperienza interessante: un po’ come bere consapevolmente un cocktail ben shakerato.

giovedì 13 settembre 2012

Modena, tortellini, storia e dadi didattici


11 settembre, vado a Modena per seguire un seminario dal titolo intrigante:

Il gioco. Uno strumento multidisciplinare. Un seminario pratico.

Ci vado per il titolo, che mi acchiappa  fin nella separazione letteralmente puntuale fra gioco, strumento e praticità. 
Ci vado per i docenti che sono un amico di lunghissima data (Antonio Brusa, docente di storia con cattedra a Bari e utente di giochi per docere la storia), un amico più giovane ma ormai nel gotha del ludico italiano (Andrea Liga Ligabue, esperto, collezionista, organizzatore e padre di figlie giocanti) e Roberto Guidetti che non conosco ma mi fido (docente di genetica e dintorni all’università di Modena, assistito da Matteo Bisanti, giovane ludodivulgatore scientifico).
Come me si fidano evidentemente  molti altri: da discenti ci sono circa sessanta docenti “vere”, di scuola vera, quella che parte proprio oggi, di ogni ordine e grado. Cito al femminile perché di maschi ne siamo 4 fra il pubblico, più i relatori (esclusa ovviamente l’ottima Giulia Ricci, dell’Istituto Storico di Modena, deus ex machina di questo seminario e molto altro).
Il tutto é lanciato da Memo, acronimo che (credo) riprenda Multicentro Educativo Modena.

Son davvero felice di esserci venuto e consiglio a tutti di scrivere al suddetto Memo per avere ogni informazione possibile su questo seminario e sui prossimi: memo@comune.modena.it

Felice perché vedo un ente pubblico che sul serio mette a disposizione dei suoi dipendenti (insegnanti nel caso) strutture e idee d’avanguardia e finalmente un po’ diverse dal solito banale.
Felice perché vedo insegnanti che investono il loro tempo e la loro energia pensando non agli straordinari ma a come trasferire meglio e in modo più efficace i concetti agli studenti.
Felice perché ascolto realtori che non se la tirano ma credono in quello che fanno e lo si vede dalla loro faccia. E trasmettono davvero le cose invece di suggerire solo che sarebbero molto bravi a farlo.
Felice perché ascolto e pratico un sacco di modelli didattici interessanti, molti dei quali con le dovute elaborazioni senza dubbio utilizzabili anche nella formazione d’aula più adulta e manageriale possibile.
Felice perché insieme ad amici approfondiamo il tema ludo formativo dell’attenzione alla forma del gioco vs.contenuti trasmessi o trasmissibili (e su questo conto di sviluppare un post ad hoc).

Vi passo in concreto qualche dritta: 

il gioco dei nomadi e dei sedentari del prof Brusa: lavorare sugli stereotipi usando quello della normale accezione di nomade=zingaro, partendo dai pastori sumeri per arrivare a scoprire che in effetti non si sa nulla dei Rom, e che almeno il 30% di tutti noi è definibile come nomade (dagli informatori farmaceutici ai marinai…). Ottenendo così un bel focus utilizzabilissimo ad esempio per lavorare sulla competenza critica nella raccolta delle informazioni (per maggiori info scrivete a brusa@mundusonline.it).

Il gioco dell’Isola perduta –reperibile in ogni buon negozio di giochi- che fa sviluppare un bel meccanismo di cohopetition, cercando di salvare i giocatori da un’isola che sprofonda progressivamente (un po’ come nel vecchio Atlantis dell’Hasbro, per i più anziani fra i miei lettori). Per sapere di più su questo e altre novità applicabili all’aula potete scrivere a liga@treemme.org.

Il gioco del DNA con le lettere, che mi ha fatto capire in pochi minuti quel che non avevo compreso in 60 anni del meccanismo genetico: con pennarelli e tappi colorati si formano delle combinazioni di colori che corrispondono a lettere, con cui fare anagrammi. Ma basta cambiare un colore e tutto diventa diverso, nuove lettere per nuove parole… detto così magari è un po’ incasinato, ma se chiedete al Memo vi danno la mail di Matteo Bisanti che a sua volta vi spedisce il pacchetto completo di gioco e DNA allegato.

Ah, ho anche mangiato dei tortellini alla panna davvero davvero buoni. E ho visto due Ferrari.